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September 22, 2014
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La strage di via Caravaggio a Napoli, una storia esemplare

Valter VecelliobyValter Vecellio
Time: 4 mins read

Bisogna avere i capelli bianchi per ricordarla, la strage di via Caravaggio a Napoli: è una vicenda che scosse il paese: padre, madre, figlia, perfino il loro cane massacrati con inusitata efferatezza; vicenda che, come sempre accade in questi casi, divise l’opinione pubblica tra colpevolisti e innocentisti.

È la sera del 30 maggio 1975. Insospettiti dal fatto che da alcuni giorni dall’appartamento di Domenico Santangelo non arrivano segni di vita, gli inquilini del condominio di via Caravaggio 78 chiamano la polizia; sfondata la porta gli agenti così descrivono la scena nel loro rapporto: “La casa all’apparenza era deserta. Nessun odore dalla camera da letto e dal bagno, ma sul pavimento una grossa pozza di sangue imbeveva il tappeto e il cuscino. Le tracce continuavano fino al bagno padronale: nella vasca i cadaveri quasi decomposti di Gemma Cenname e di Domenico Santangelo, posti l’uno sull’altro. Entrambi colpiti con un corpo accuminato e poi sgozzati. In camera da letto, invece, avvolto in una coperta, il corpo senza vita della giovane Angela, figlia del Santangelo”.

C’è un quarto componente della famiglia Santangelo: il cagnolino Dik. Lo si trova successivamente, dopo un secondo sopralluogo, anche lui senza vita, chiuso in un secondo bagno dell’abitazione.

“Nessun odore dalla camera da letto e dal bagno; ma c’erano cadaveri in avanzato stato di decomposizione; e il cane si trova solo in un secondo sopralluogo… il primo deve essere stato davvero accurato –  racconta Domenico Zarrelli, nipote di Gemma –  Trovato dopo che per giorni tutta la polizia di Napoli era stata sguinzagliata alla sua ricerca; e dopo che la questura si era riempita di bastardini portati dalla gente che aveva risposto all’appello dei solerti investigatori”.

Gli investigatori indagano, come si dice, a 360 gradi; che se si vuol prendere alla lettera, significa che girano su se stessi e tornano al punto di prima. Come si fa sempre, spesso cogliendo nel segno, si procede per cerchi concentrici; ed è così che Domenico Zarrelli entra nel mirino: è il “nipote scapestrato” di Gemma Cenname (così viene definito), all’epoca dei fatti ha 32 anni, studente fuori corso con 14 esami da sostenere. Più che agli studi preferisce applicarsi alle belle ragazze e alle corse in automobili, la bella vita, insomma. Per questo spesso ha bisogno di denaro, e bussa alla cassa della zia. Come si dice in questi casi? Un indizio, due indizi, tre indizi… una vicenda comunque intrigante, che finisce per ispirare anche un romanzo di Carlo Bernari, Il giorno degli assassini.

Torniamo al “mostro” di via Caravaggio. La porta d’ingresso non reca segni di effrazione; significa che l’assassino non ha faticato per entrare, probabilmente gli hanno aperto la porta. Poi l’assassino doveva per forza essere di “sana e robusta” costituzione: ha ucciso tre persone, e trasportato i corpi in bagno e in camera da letto; e Zarrelli per l’appunto è di “sana e robusta costituzione”. Qualcuno poi testimonia d’aver visto allontanarsi di tutta fretta un individuo a bordo di una Fulvia rossa. Zarrelli possiede per l'appunto una Fulvia rossa… È fatta. Il giudice istruttore, presa visione del dossier di un centinaio di pagine lo ritiene sufficiente per incastrare Zarrelli, e firma il mandato di cattura: dottor Felice Di Persia… È lo stesso magistrato che anni dopo sarà tra i protagonisti del caso Tortora? Sì, è lui.

Il 9 maggio 1978 Zarrelli viene condannato all’ergastolo; la corte d’appello lo assolve, sia pure con formula dubitativa. La corte di cassazione rinvia gli atti alla corte d’appello di Potenza, processo da rifare. E questa volta assoluzione con formula piena. Ritorno in cassazione che stabilisce: “A carico di Zarrelli non esisteva nessun indizio, e mai e poi mai nessuna corte avrebbe potuto condannarlo” e tuttavia, nell’attesa dei vari giudizi, Zarrelli ha trascorso dieci anni in carcere, e per non farsi mancare nulla, un paio di mesi in manicomio criminale.

La storia, però non si chiude, come ci riferiscono i giornali di questi giorni: perché tre anni fa, sulla base di una denuncia anonima, il caso è stato riaperto; si recuperano i reperti raccolti 39 anni fa, li si analizza con tecniche che nel 1975 erano inimmaginabili. Su alcuni stracci insanguinati e mozziconi di sigaretta si sarebbero trovate tracce del DNA di Zarrelli, che a questo punto da innocente tornerebbe a essere il probabile autore della strage. Quasi tutti si sono poi esercitati sull’amara conclusione (per ora, almeno) di questa vicenda, destinata a essere archiviata: perché la legge stabilisce che un assolto definitivo non può essere più processato per lo stesso reato.

Forse qualche altra riflessione andrebbe fatta. La storia che leggete sui giornali non è esattamente una novità. Era stata raccontata, fin nei minimi particolari, da Il Napoletano, un magazine edito da Marotta & Marotta editore; e in particolare nell’articolo dell’aprile di quest’anno, Strage di via Caravaggio, perché si tace sul DNA?, di Giuseppe Grimaldi. Segno che la storia circolava, e da tempo, almeno nei corridoi di palazzo di Giustizia a Napoli. Qualcuno deve aver deciso che ora è di “attualità”. Ma questo è poco più di un inciso. Le prove sottoposte ai test sono sopravvissute a 39 anni, chiuse in qualche scatola in qualche scantinato di polizia o di procura. Chi l’avrebbe mai detto…

Ad ogni modo, aver trovato tracce di DNA significa che Zarrelli in quell’appartamento c’è stato. Non che abbia ucciso. Pietro Gargano, cronista di vecchio pelo de Il Mattino, ci racconta che nel sangue è stata trovata l’orma di una scarpa 42; ma Zarrelli calza scarpe numero 46. Il DNA è stato trovato su mozziconi di sigaretta HP, ma Zarelli fumava Gauloise… E quei messaggi di Angela: “Sai che mancano due giorni al giorno fatale…”, “Morirò scannata, c’è un ingegnere…”.

Va bene, non si vuole fare l’ennesimo processo al/ai processi. Sembra però, che il caso sia stato riaperto sulla base di una lettera, anonima. Un anonimo molto ben informato. Sarebbe interessante sapere chi è, e perché si è fatto vivo solo nell’ottobre del 2011.

 

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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