Pur rappresentando, per molte ragioni, la quintessenza dell'America e dello spirito americano, per altrettante ragioni New York non è America. New York non è la provincia americana, di cui i newyorchesi spesso non sanno quasi nulla, venendo loro stessi, i loro padri o i loro nonni, da tutti gli angoli del mondo.
New York è circondata dall'acqua, ed è un ponte naturale gettato verso il resto del mondo, a New York si vive uno accanto all'altro, per questioni di spazio prima che per scelta, i newyorchesi di etnie, lingue, religioni, età diverse si incrociano sui marciapiedi affollati di Manhattan, in metropolitana, sugli autobus, negli ascensori, in fila davanti ai baracchini degli hotdog e ai minimarket organic, a New York ci sono chiese di tutti i culti e si parlano quasi 800 lingue diverse, e il 40% dei newyorchesi è nato fuori dagli Stati Uniti.
A New York convivono l'alta finanza che governa il mondo e le bodegas, solo che anche se capita che chi lavora a Wall Street e chi lavora in una bodega del Bronx si ritrovino seduti uno accanto all'altro nella subway, la realtà è che hanno un'esperienza della vita a New York completamente diversa.

Ragazzi di varie etnie su St. Mark’s place (Foto: Maurita Cardone)
Quartiere, etnia, e lingua fanno la differenza. E a volte anche l'età. E allora la città può essere il posto più sicuro del mondo come anche quello più pericoloso, il più ordinato come quello più degradato, i suoi abitanti fra i più ricchi del pianeta come fra i più poveri. Tutti sono newyorchesi e tutti (o quasi) si riconoscono come newyorchesi, ma la percezione che hanno della città, dei vicini di casa, del denaro, della vita stessa, è diversa. Se vivi nell'Upper East Side e a East New York, Brooklyn, non è solo la percezione della città ad essere diversa, è la vita ad essere diversa: rientrare a casa la sera tardi dopo il lavoro o starsene seduti su una panchina, tutto cambia a seconda del quartiere. Nel primo caso non c'è nessun pericolo, nel secondo può esserci, e spesso c'è. Nel primo caso sei (molto probabilmente) bianco e sei circondato da bianchi, nel secondo caso puoi essere bianco ma più probabilmente sei afro-americano o latino e sei circondato da afro-americani, latinos e altre diverse etnie. Nel primo caso non c'è o quasi polizia in giro, nel secondo caso ce n'è parecchia. Nel primo caso quando passa una volante ti ignora e tira dritto, nel secondo caso è possibile che si fermi e ti fermi, per fare domande, perquisirti, a volte anche malmenarti, e persino ucciderti, se sei nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, o sei vestito nel modo sbagliato. E qui si entra in un argomento complesso, per cui quel che è successo a Ferguson, e a St Louis, è solo la punta dell'iceberg, perché la questione ha radici profonde e tante facce.
In questi giorni è emerso che la polizia del Missouri è particolarmente malmessa: intere centrali di polizia chiuse per frequenti episodi di razzismo, molti episodi di violenza ingiustificata, poliziotti balordi con un passato violento, intere cittadine in cui vige il coprifuoco, non si sa bene se per la violenza degli abitanti o della polizia. Si dice che la polizia di New York non sia così e molti newyorchesi confermano, ma dalle diverse voci emerge una situazione molto diversificata, rispetto alla presenza della polizia nei diversi quartieri, e ai relativi episodi evidenti di intolleranza e razzismo. “La polizia di New York non è come la polizia del Missouri, e nemmeno come quella del Texas… io vivo a Houston da tanti anni ormai, ma sono cresciuto a Bensonhurst, Brooklyn, e posso dire che sono due cose completamente diverse – racconta Jason, che fa il grossista di prodotti alimentari e torna spesso a Brooklyn, per lavoro e per vedere i genitori – Quand'ero ragazzo mi mettevo spesso nei guai: furti, risse, cose così, e la polizia ha sempre cercato di aiutarmi, di darmi delle alternative, invece che arrestarmi e spedirmi in prigione. È così che si deve fare, soprattutto con i ragazzi, ed è così che fanno i poliziotti qui a Brooklyn”.

Un poliziotto tra le vie di Manhattan (Foto: Maurita Cardone)
E la questione razziale? “Quella non c'entra, si tratta di cosa è contro la legge e cosa non lo è, qui non ci sono questioni razziali”. Nello stesso quartiere, un tempo abitato in prevalenza da italo-americani, vivono ora molti cinesi, che preferiscono non parlare di razzismo e polizia. Più che altro è una questione culturale, di riservatezza, quella cinese è una comunità chiusa, che ha le sue regole di vita e anche di sopravvivenza: “Io faccio il mio lavoro, non dò fastidio a loro e loro non danno fastidio a me”, è l'unica cosa che dice, in un inglese stentato, il ragazzo che lavora a uno dei tanti take-away cinesi sull'86ª strada. In questa zona di Brooklyn – Bensonhurst, Dyker Heights, Bay Ridge – le bandiere americane sventolano davanti alle casette bifamiliari così come nei giardini delle ville che si affacciano sulla baia, aiuole e marciapiedi sono curati, e italo-americani, irlandesi e di recente anche molti cinesi si dividono il quartiere, se non proprio integrandosi almeno ignorandosi a vicenda.
NYPD e NYFD hanno tra i loro uomini molti italo-americani e irlandesi. Mario invece di italiano ha il nome e i nonni (arrivati a Pittsburgh da ragazzi), insegna al college e vive a Chelsea, un quartiere un tempo popolato da homeless, rockers e artisti vari rigorosamente squattrinati.

Una veduta di Chelsea (Foto: Chiara Barbo)
Adesso è rimasto qualche housing project ma la morfologia del quartiere è cambiata quanto ad abitanti: classe media e medio alta, bianca, molti professionisti, e artisti che hanno fatto fortuna. “È difficile liquidare l'argomento in poche parole, ci sono molti aspetti da considerare. È importante il fatto che adesso si parla di più di razzismo, penso che in generale gli episodi siano inferiori rispetto al passato ma che se ne parli di più. Adesso che tutti abbiamo una fotocamera digitale o uno smartphone, abbiamo il dovere di riprendere e denunciare le situazioni in cui la polizia oltrepassa la linea. Poi questo crea le storie che fanno vendere i giornali, e qui si entra in un altro campo ancora, quello del ruolo dei media…”. C'è razzismo all'interno della polizia di New York? “Io penso che in generale la polizia a New York (e non solo a New York) faccia un buon lavoro, e parlo di poliziotti senza fare differenza di etnia. Poi è chiaro che c'è sempre, come in tutti gli ambiti, qualche mela marcia che mette in cattiva luce la maggioranza, che invece lavora bene. La mia opinione su questo non è molto popolare, lo so, e anche mia moglie e molti amici non sono d'accordo con me, ma penso che se è vero che la polizia a volte giudica in maniera sbagliata una situazione, lo fa in base a dei fattori esterni – come per esempio il modo in cui uno è vestito o il luogo in cui si trova in quel momento – e può avere reazioni sbagliate. Ma mi chiedo anche perché, sapendo questo, certe persone scelgono comunque di mettersi a rischio… Un uomo di colore, intelligente, non si metterebbe mai un cappuccio che gli copre il viso per andarsene in giro di notte da solo, perché sa che darebbe di sé un'idea che potrebbe confondere… Se mandiamo i messaggi sbagliati, allora in qualche modo siamo anche co-responsabili di quel che succede dopo. E penso che i genitori, bianchi o neri, debbano dare un'educazione ai propri figli anche in questo senso, per renderli consapevoli che il modo in cui si pongono determina un giudizio, magari affrettato ovviamente, ma a volte la polizia non ha il tempo di analizzare le situazione, o non ha gli strumenti giusti”.

Una moschea nell’East Village (Foto: Maurita Cardone)
Una posizione questa che tira in ballo diversi fattori: l'educazione, l'apparire, il ruolo dei media, ma decisamente controversa, anche perché poi c'è anche l'educazione del poliziotto che determina una reazione o un'altra, il suo background familiare (come si è visto) e anche evidentemente un problema di comando, di addestramento, di ordini. Detto tutto questo, anche lasciando da parte la questione della giustizia che è comunque primaria, e lasciando anche da parte il fatto che il poliziotto è un pubblico ufficiale e ha delle responsabilità rispetto alla comunità, c'è poi anche il buon senso: tra un ragazzo con un coltello e un poliziotto (a pochi metri di distanza) con la pistola, sarà sempre e comunque il ragazzo ad essere in una situazione di debolezza. “Quello che dico è che bisogna analizzare tutti i fattori in campo, che possono spiegare certe reazioni da parte di certi poliziotti… Naturalmente ogni abuso di potere da parte della polizia va punito, non intendo in nessun modo giustificare quello che è successo in Missouri”, conclude Mario.
Fran si è da poco laureata a pieni voti con tanto di bacio accademico alla Smith University, è bianca, colta, abita nell'Upper West Side, quartiere tranquillo e sicuro, eppure la sua opinione sul razzismo a New York e sulla polizia è in netto contrasto con quella di Mario. “Io ho l'armadio pieno di hoodie (felpe con il cappuccio, ndr), perché mi piacciono. E quando me ne metto uno e me ne vado in giro la sera o anche la notte, dopo una serata con amici, con la testa coperta, la polizia non mi ferma perché gli sembro sospetta. Io sono bianca! Secondo me la differenza è tutta qui. Se uno dei miei amici che sta a East New York, ed è afro-americano, fa la stessa cosa, lo fermano di sicuro, gli fanno domande, magari gli mettono anche le mani addosso, non vanno tanto per il sottile. È successo e succede ogni giorno”. Quindi anche il quartiere fa la differenza. “Si, certo, come anche l'etnia e la questione linguistica. Tanto per fare un esempio: qui nell'Upper West Side non succede mai niente di grave, non c'è polizia in giro, è tutto tranquillo. Eppure qualche mese fa è successa una cosa che mi ha fatto pensare: un signore anziano, orientale, stava attraversando la strada con il semaforo rosso. Naturalmente è illegale, ma nessuno ti arresterebbe per questo. Allora, questo signore stava attraversando con il rosso, mentre passa la polizia, che gli dice di fermarsi e che è illegale. Lui prosegue perché non capisce, loro continuano a gridargli in inglese e gli si avvicinano, lui è confuso perché non parla inglese, non capisce e non si ferma, loro lo immobilizzano e lo malmenano pesantemente. È molto grave che succedano cose come questa, e succedono, anche se in generale sicuramente il racial profiling a New York è più basso che in Missouri o altri stati americani”.
Il quartiere di Bed Stuy a Brooklyn (Foto: Maurita Cardone)
Jennifer ha due bambini e vive a Bed Stuy, quartiere che ha fatto da sfondo a molti film di Spike Lee, tradizionalmente e ancora prevalentemente abitato da afro-americani, che sta vivendo una rapidissima gentrification. Fa la mamma a tempo pieno, mentre il marito fa dei lavori saltuari, fanno la spesa con i food stamps (buoni pasto forniti dal governo alle persone a basso reddito, ndr) e abitano in uno dei tanti project (case popolari, ndr) della zona. “Ho paura per i miei bambini, ho paura che quando crescono finiscano ammazzati per errore da qualche spacciatore del quartiere o da qualche poliziotto. Da queste parti può succedere, sa? E non solo qui, guarda Ferguson, ed era successo anche a Staten Island l'anno scorso, e succede ogni giorno in America, solo perché uno ha la pelle nera.
“L'America è una terra di contraddizioni, penso però che ci sia ancora una vera libertà di espressione, a differenza di altri paesi”, racconta Ricky, che fa il dj ed è arrivato a New York dall'Italia un paio d'anni fa. “Per esempio, la scorso weekend sono stato a un festival musicale afro punk, c'erano migliaia di persone, perlopiù afro-americani, l'atmosfera era molto positiva, carica di good vibes. E numerosa era anche la presenza delle forze dell'ordine, che hanno assistito impassibili all'esibizione dei californiani Body Count (il progetto metal del rapper Ice-T), famosi grazie a una canzone che incita a uccidere i poliziotti. Ecco, una situazione del genere ad esempio in Russia (la vicenda Pussy Riot docet) sarebbe impensabile…”. È così, ed è così anche perché anni di lotta per i diritti degli afro-americani hanno portato a una coesione da una parte e alla formazione di una coscienza collettiva (almeno parziale, e almeno sui media e nelle manifestazioni pubbliche ) su questo tema dall'altra.
Altra storia per i latinos, numerosissimi a New York, e in continuo aumento, che non sentono di “appartenere” alla comunità, e i cui diritti e le cui storie vengono spesso ignorati. Neva è qui da oltre vent'anni, ha lasciato in Repubblica Dominicana il marito, e un figlio, che ha visto per la prima volta solo due anni fa, da quando è arrivata clandestinamente negli Stati Uniti. Fa le pulizie nelle case, è a volte anche la baby sitter, per le famiglie che conosce da più tempo. “Da un po' di anni abito in una zona molto tranquilla, a Jamaica, mi trovo bene, ho diverse amiche lì, anche loro dominicane come me. Prima stavo a East Harlem, ma non mi piaceva, era pericoloso, e per un periodo anche a Bushwick, ma non mi trovavo bene neanche lì, per la stessa ragione…”. Cosa pensa di quel che è successo a Michael Brown, ucciso a 18 anni da un poliziotto? Scuote la testa. “È molto triste, molto triste…e ingiusto”. Neva rimane in silenzio per un po', non sa bene cosa dire, poi aggiunge: “Mi dispiace molto per sua madre, ho un figlio anch'io, immagino solo come possa sentirsi”.
New York è un patchwork, una salad bowl, come giustamente è stata definita. E così sono i newyorchesi, non hanno un'unica opinione sulle questioni razziali, sulla violenza da parte delle forze dell'ordine, troppe sono le differenze: etnia, pelle, lingua, background familiare e sociale, educazione, quartiere. Ma quasi tutti, pur citando quel che è successo in Missouri, riportano poi la situazione a New York. La loro città è New York, e la percepiscono come “altro” rispetto al resto d'America.
Della profonda provincia americana molti ne sanno quanto noi (che siamo una generazione di italiani arrivata qui da poco), o anche di meno. Sebbene nascosta in mezzo a tanto mondo che da oltre un secolo arriva qui ogni giorno, quell'America a guardar bene c'è anche qui, ma per i newyorchesi è molto lontana.