Le elezioni europee di maggio hanno contribuito a rimodellare il panorama politico del Vecchio Continente. E si ripercuotono ora sui suoi equilibri istituzionali.
La scelta bipartisan di Jean-Claude Junker come futuro presidente della Commissione e di Martin Schulz come presidente del parlamento di Strasburgo confermano e consolidano una tendenza in atto già da qualche anno: la tendenza al riallineamento della politica europea intorno alle questioni strategiche che il processo di integrazione continentale è chiamato ad affrontare.
Era abbastanza prevedibile che l’accelerazione dell’azione europea in senso federale dopo la crisi del 2008 provocasse una reazione contraria, anche se non proprio eguale. I nuovi rapporti di forza parlamentari a Strasburgo riflettono abbastanza fedelmente quella tendenza: i voti a favore di Martin Schulz rappresentano la maggioranza europeista del parlamento; i voti contrari, quelli della minoranza euroscettica o decisamente eurofoba. Lo stesso schieramento si esprimerà fra un paio di settimane sul nome di Jean-Claude Junker alla presidenza della Commissione.
È pur vero che, come abbiamo detto più volte, l’abitudine dei governi nazionali di attribuire a sé i successi (sempre più rari) e di scaricare sull’Unione europea gli insuccessi (sempre più frequenti) è una delle cause dell’impennata elettorale dei cosiddetti populisti. I quali altro non sono che i federatori – a volte abbastanza inconsapevoli – di un’instabile coalizione di scontenti che va dai lavoratori vittime dell’austerità all’ormai vacillante esercito dei beneficiari della spesa pubblica, arruolati quando i cordoni della borsa di Pantalone erano generosamente larghi.
Ma questi ultimi non sono che una rotella dell’ingranaggio istituzionale costruito ad un’epoca – quella degli Stati-nazione europei – che è in via di estinzione. Quell’epoca non ha solo prodotto pleonastici eserciti di riciclatori della spesa pubblica, ma anche strutture (dalle frontiere nazionali alle banche centrali passando per gli eserciti e le burocrazie ministeriali) che combattono una disperata lotta per la sopravvivenza, nonché ideologie sovraniste che hanno invece una speranza di vita assai maggiore.
Uno dei paradossi del processo europeo è che le resistenze più tenaci sono tradizionalmente venute dai paesi più forti, cioè da quei paesi che hanno costruito la loro identità nazionale diventando potenze mondiali dominanti, come la Gran Bretagna e la Francia. Quando questi paesi devolvono parti della loro sovranità, rinunciano realmente a qualcosa. Viceversa, i paesi dall’identità nazionale debole o inesistente, il cui tentativo di diventare Stati-nazione è sostanzialmente fallito – come ad esempio l’Italia – hanno meno (o nulla) da perdere quando si tratta di abbandonare pezzi di una sovranità pressoché inesistente.
Questo spiega perché, nei momenti di accelerazione federale, le resistenze britanniche e francesi si facciano più aspre. E si vadano a sommare alle resistenze interne ad ogni paese, di quei settori, corporazioni e classi sociali che, strutturalmente o congiunturalmente, si trovano sotto attacco europeo. Questo spiega, in ultima analisi, il risultato elettorale di maggio, e i nuovi equilibri istituzionali che si vengono formando in questo inizio d’estate 2014.
Le promozioni di Junker e di Schulz sono, si diceva, due decisioni bipartisan, dovute cioè alla convergenza della destra (il Partito popolare) e della sinistra (il Partito socialista e democratico). Ma, al tempo stesso, segnalano un’altra tappa nel processo di superamento dell’ormai esausta e sempre più vacua distinzione tra destra e sinistra.
Un tempo, la sinistra stava con l’URSS e la destra con gli Stati Uniti. Un tempo, la sinistra era dirigista e la destra era liberale. Oggi, quelle distinzioni non ci sono più. In particolare, gran parte dell’ex sinistra è diventata sempre più liberale (e in ogni caso, vince le elezioni solo quando mostra il suo volto più liberale) e gran parte dell’ex destra è diventata sempre più dirigista: e questo perché il processo europeo si dirige da posizioni liberali, venate di un tocco di dirigismo previdenzialista che faccia salvo il principio del “modello sociale europeo”. Insomma, gran parte dell’ex sinistra e gran parte dell’ex destra convergono su un progetto europeista di economia sociale di mercato di matrice tedesca.
Gli spezzoni dell’ex sinistra e dell’ex destra ostili al progetto europeo hanno trovato anch’essi una convergenza nel protezionismo e nella sua versione monetaria di opposizione all’euro. Il linguaggio gauchiste della signora Le Pen, le fluttuazioni erratiche del signor Grillo e i consiglieri socialisti del signor Farage sono molto meno paradossali di quel che si potrebbe pensare a prima vista.
Insomma: il panorama politico europeo si va rimodellando. I vari governi di “grande coalizione” (o bipartisan) – in Germania, in Italia e in Grecia, per esempio – sono stati solo l’avanguardia di una tendenza in via di consolidamento: da una parte gli europeisti, dall’altra gli antieuropeisti.
Gli antieuropeisti non sono dunque un incidente di percorso, un’inguardabile escrescenza populista. Anche se molti di loro ancora non lo sanno, sono destinati a diventare l’opposizione di sua maestà il progetto europeo.