Era un giorno di giugno di quarantaquattro anni fa. Era un artista di successo, attore, ma anche cantante, direttore di orchestra, musicista, regista, scrittore, showman, conduttore televisivo e radiofonico…La mazzata gli sconvolge la vita, gliela distrugge, letteralmente. Viene arrestato con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti. Arrestato perché un giorno si era limitato a “girare” a uno sconosciuto, che poi si era rivelato essere uno spacciatore, un messaggio dell’amico Walter Chiari. Per quel messaggio trascorre ventisette giorni in carcere; poi, finalmente viene rilasciato, la sua posizione è chiarita, lui risulta innocente, colpevole di nulla, estraneo a tutto: un clamoroso errore giudiziario; ma nel frattempo qualcosa “dentro” si rompe, e nulla è più come prima. Lelio Luttazzi, perché è di lui che si sta parlando, si ritira, quello che ha patito è irrisarcibile, quello che si è incrinato è incrinato per sempre. Solo dopo molto tempo troverà forza e voglia per apparire in qualche trasmissione televisiva, di incidere qualche CD, musiche come l'amato swing.
Perché ricordare questa vicenda? Intanto perché è sempre bene ricordarle, in un paese dal facile crucifige, che spesso colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, si sono poi rivelati innocenti. E poi perché mentre si levano fiere proteste e cori indignati per aver osato approvare un emendamento che riguarda la responsabilità civile del magistrato che l’Associazione Nazionale dei Magistrati non approva e non gradisce (e il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è subito affannato a promettere che troverà il modo di annullarlo), ci è capitato di leggere la bella e accorata lettera di Rossana Luttazzi, vedova di Lelio.
“Da qualche giorno”, scrive la signora Rossana, “leggiamo sulle prime pagine dei quotidiani e ascoltiamo nelle varie edizioni dei telegiornali nomi e cognomi di persone coinvolte con accuse pesantissime in casi di corruzione. ‘Testimoni chiave’ che riempiono pagine e pagine di verbali, che, grazie alle loro testimonianze, raccontano, citano fatti, e quello che ha detto, e quello che ha telefonato, e quello ha chiesto somme, quell’altro ha chiesto favori, e la stampa spara nel mucchio. Non parliamo poi dei tanti talk -show ai quali partecipano con solerzia giornalisti di tutte le razze. Anche se non viene configurato né ipotizzato alcun reato, giù a fare nomi, accuse, insinuazioni, spesso con arroganza e presunzione.
Non occorre essere indagati, il che non giustificherebbe comunque l’essere «sbattuti in prima pagina», ma è sufficiente che il tuo nome sia citato nei verbali di tutti questi signori e signore che tanto hanno da raccontare, per non parlare poi delle intercettazioni telefoniche, per «venire sputtanati».
E veniamo ai giudici. Finalmente la Camera dice sì alla responsabilità civile delle toghe. Era ora! Ma la votazione causa polemiche e preoccupazioni. L’ANM è sul piede di guerra e il vice-presidente del CSM pure: “E’ in gioco l’indipendenza di giudizio del magistrato, esporlo a un’azione diretta di responsabilità metterebbe a repentaglio il suo libero convincimento e produrrebbe un numero infinito di processi su processi”. Ma pensa!
Da sempre, invece, i magistrati, seguendo “il loro libero convincimento”, hanno coinvolto e continuano a coinvolger nelle loro inchieste persone risultate poi innocenti. E che sarà mai! È giusto così? Secondo me non è affatto giusto così,
è semplicemente vergognoso. E posso dirlo con convinzione di causa. Sono trascorsi ben quarantaquattro anni da quando sbatterono «il mostro in prima pagina». Quel «mostro» era mio marito: Lelio Luttazzi.
Un semplice errore di un magistrato, ma quell`ERRORE rovinò la vita di Lelio. Preso e sbattuto a Regina Coeli in cella d’isolamento in compagnia del «buiolo» senza sapere il perché… Sì, perché allora un pubblico ministero poteva decidere se e quando farti incontrare il tuo avvocato. A Lelio bontà loro, lo permisero dopo quindici giorni.
Lo scrittore Giuseppe Berto nella prefazione del libro «Operazione Montecristo» (libro scritto in galera da Lelio durante quei 27 giorni d’inferno) scrive:
«Noi siamo esposti alle offese di coloro che dovrebbero tutelarci dalle offese. È una generalizzazione necessaria, perché di pubblici ministeri come il tuo in Italia ce ne sono a centinaia. Su certe questioni noi siamo abituati a ragionare con le lettere maiuscole. Diciamo lo Stato, la Giustizia, la Magistratura. Lo facciamo per viltà, perché è faticoso rinunciare alla protezione degli dei, costatare che le Istituzioni più sacre – così si diceva un tempo – sono fatte da uomini che molto spesso sono peggiori di noi. Ma la questione di fondo rimane, ed è questa: due uomini che fanno lo stesso mestiere, usando gli stessi strumenti messi a loro disposizione dal sistema e valutando gli stessi elementi, ti trovano uno delinquente pericoloso meritevole di almeno tre anni di galera, e l’altro assolutamente innocente. È possibile lasciare un così largo margine di potere ad uomini che possono sbagliare? È possibile che i nostri legislatori non abbiano ancora capito la necessità di garantire l`indiziato? Ecco, non ho altro da dire. Auguro al tuo libro un grande successo, vorrei che tu avessi lettori a migliaia e che tutti, alla fine, arrivassero a pensare "giustizia" con l’iniziale minuscola».
Era il 1970! Quarantaquattro anni fa! Lelio trascorse anni a querelare, a fare cause civili (mai una persa), poche lire per carità, ma immense soddisfazioni. Perché? Perché i giornalisti scrivendo di Lelio, non perdevano mai l’occasione di ritirare fuori quella faccenda e scriverne sempre in modo errato, con superficialità, senza documentarsi mai abbastanza. Lelio mi ha lasciata nel 2010. Ho continuato io al posto suo a fare cause: l’ultima vinta qualche mese fa”.