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May 22, 2014
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Provando a separare la mafia dallo Stato mentre si piange Falcone

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 5 mins read

Quest’anno, il ricordo della strage di Capaci – ovvero le morti di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli uomini della scorta – finisce con il coincidere con il finale della campagna elettorale per le elezioni europee. Il 23 maggio il ricordo della strage, due giorni dopo, il voto. Il risultato è un gran casino.

Anche perché, di per sé, il ricordo di Falcone – sempre quest’anno – sconta un’altra imbarazzante coincidenza: il processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo. Un processo che vede alla sbarra militari e politici accusati di aver “trattato” con Cosa nostra.

Ma il vero problema non è questo processo – che bene o male va avanti, anche se tra tanti tentativi di farlo saltare (l’ultimo, qualche settimana fa: il tentativo di trasferirlo a Caltanissetta. Operazione bloccata dalla Corte di Cassazione). Il vero problema è che, quest’anno, una parte di coloro i quali, a vario titolo, sono stati “sfiorati” dalle indagini su questa vicenda sono praticamente gli stessi che dovrebbero “celebrare” l’anniversario della strage di Capaci. Una farsa.

È inutile girarci attorno, perché i fatti sono ormai arciconosciuti. Nella primavera del 1992 – quando la trattativa tra Stato e mafia era già iniziata – il giudice Paolo Borsellino non sembrava molto d’accordo. Incontrerà l’allora ministro degli Interni, Nicola Mancino. Poi, il 19 luglio del 1992, morirà anche lui nella strage di via D’Amelio insieme con gli uomini e le donne della sua scorta.

Le indagini sulla strage di via D’Amelio saranno oggetto di un depistaggio da parte di apparati dello Stato italiano. Quasi a suggellare che l’omicidio Borsellino è stato voluto da “pezzi” dello Stato deviati in combutta con la mafia, ammesso e non concesso che tra le due “entità” ci sia qualche differenza. Il processo Borsellino porterà alla sbarra e alla condanna una serie di innocenti. Massacrati per coprire i veri protagonisti della strage di via D’Amelio.

Siamo arrivati ai nostri giorni. Con le intercettazioni che riguardano il Quirinale. Sono le ormai ‘celebri’ telefonate dell’ormai ex Ministro Mancino agli uffici della presidenza della Repubblica italiana. Chiacchierate che hanno sempre sollevato polemiche a non finire. Perché è legittimo chiedersi perché Mancino chiamava proprio il Quirinale. Affermando che, lui, se acchiappato, non sarebbe certo stato il solo a pagare per tutti…

Il risultato è che queste registrazioni telefoniche non hanno avuto fortuna. Toccando temi e personaggi delicati, sono state messe da parte. Un finale italiano. In stile segreti di Portella delle Ginestre. Muto tu e muto io.

Ad aumentare la confusione hanno pensato due studiosi, il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo che – in un libro dal titolo un po’ esagerato: La mafia non ha vinto – sostengono, alla fine, che, se contatti tra organi dello Stato e mafiosi ci sono stati, ebbene, questi sono avvenuti nel quadro della legittimità istituzionale. Perché uno Stato, quando è in difficoltà, si deve difendere. Anche avviando contatti con i nemici dello stesso Stato, che allora erano i mafiosi.

La tesi dei due professori è un po’ azzardata. E anche un po’ sbilenca. È evidente che se i professori Fiandaca e Lupo avessero letto attentamente quello che Leonardo Sciascia pensava del rapporto tra mafia e Stato italiano dopo il 1860, avrebbero avuto qualche difficoltà ad affermare quello che affermano nel loro libro.

Sciascia, riprendendo un testo di teatro popolare scritto da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca negli anni subito successivi a 1860 dal titolo: Li mafiusi di la Vicaria, spiega che, con l’avvento dell’Unità d’Italia, la mafia non è più “esterna” allo Stato – come avveniva durante il regno borbonico – ma diventava tutt’uno con lo Stato italiano.

A dimostrare quanto sia vera la tesi di Sciascia ci sono tutti i delitti e le stragi perpetrate dalla mafia dall’Unità d’Italia sino al 1992: dai Pugnalatori (altro romanzo di Sciascia che consigliamo ai professori Fiandaca e Lupo) all’omicidio Nortarbartolo, dai Prefetti di Giolitti che facevano il bello e il cattivo tempo nel Sud Italia in combutta con i mafiosi (ai due docenti consigliamo la lettura de Il Ministro della malavita di Gaetano Salvemini) ai gerarchi fascisti siciliani che intimarono a Mussolini di fermare il Prefetto di ferro, Cesare Mori, che era arrivato a lambirli: perché anche le alte gerarchie fasciste della Sicilia erano non colluse con la mafia, ma un tutt’uno con la mafia proprio come nel 1992… Per non parlare della strage di Portella della Ginestra, fino a arrivare a tutti i ‘delitti eccellenti’ che hanno caratterizzato la vita politica e sociale della Sicilia dalla fine del secondo conflitto mondiale fino al 1993.

Lasciare capire che Stato e mafia, in Italia, siano state cose diverse, beh, è “offensivo”: è “offensivo” per lo Stato italiano, machiavellico fino al midollo, che delle stragi non ha mai chiarito nulla (a parte qualche documento rintracciabile negli atti della prima Commissione parlamentare antimafia – quella che va dal 1962 al 1976 – di documentale, sulle stragi Stato-mafiose italiane c’è ben poco, a cominciare dagli archivi sulla strage di Portella delle Ginestre che la sinistra italiana – coinvolta in questa vicenda fino al collo – ha tenuto ben chiuse quando, nel 1996, per la prima volta, andrà ad occupare il Ministero degli Interni, guarda caso con Giorgio Napolitano, oggi Presidente della Repubblica).

Sono ancora fresche nei nostri pensieri le polemiche che stanno accompagnando il processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Sono ancora fresche, nei nostri pensieri, le parole inquietanti dell’ex Ministro Mancino. Ed è singolare che, quest’anno, certi personaggi piombino a Palermo per commemorare chi, come Falcone, è stato stritolato dalla stessa ‘logica’ che, circa due mesi dopo, sempre nel 1992, avrebbe eliminato Borsellino.

Insomma, ci sono momenti in cui – con la retorica, malattia molto diffusa in Italia – gl’italiani finiscono con l’accettare che lo Stato-mafia celebri, alla fine, coloro i quali sono stati eliminati dallo stesso Stato-mafia. Nella Prima Repubblica era quasi un rito istituzional-ctnio…

Ma quest’anno, vivaddio, mentre un processo, per molti versi inedito, mette sotto accusa un segmento dello Stato-mafia vent’anni dopo (peraltro quando certe “logiche” sono già dentro un’Unione europea non a caso controllata dalle banche e dalla finanza), andare a “celebrare” Falcone sembra un po’ eccessivo.

Che dire, allora, in conclusione? Ridiamo un po’ di dignità istituzionale all’Italia, provando a immaginare che, nel 1992, mafia e Stato erano cose diverse. Ridiamo un po’ di credibilità a chi, oggi, sta provando ad eliminare, per difetto ‘ontologico’, la trattativa tra Stato e mafia. Ridiamo un po’ di forza a chi, oggi, sta provando a separare la mafia dallo Stato italiano 1943-1992.

Ma sì, ridiamo, ridiamo, ridiamo…

 

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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