A torto o a ragione, le elezioni europee di domenica prossima saranno anche il referendum sul gradimento dei cittadini del vecchio continente nei confronti dell’euro. L’onda dei cosiddetti “populismi”, che intorbida lo spazio politico europeo, cresce anche grazie al vento della disaffezione verso la moneta comune. Accade, nonostante l’evidenza di un euro che ha retto agevolmente la crisi finanziaria generata dal malgoverno di Stati Uniti e di alcuni stati asiatici, ed è tuttora moneta tra le più solide e affidabili al mondo. Ciò non toglie che ci siano seri problemi in taluni paesi dell’eurozona, Italia inclusa (è di giovedì la notizia che il Pil torna negativo nel primo trimestre) e che alcuni di questi derivano anche dai limiti del sistema Ue che la gestione dell’euro ha contribuito ad evidenziare.
A far comprendere come stanno veramente le cose nella finanza e nell’economia europea, con una specifica lettura sull’euro, arriva ora la ricerca di Chatham House e Arel “How to Fix the Euro. Strenghtening Economic Governance in Europe”, appena presentata nella sede romana dell’Associazione bancaria italiana. Lo studio elenca puntigliosamente le fasi che la valuta comune ha attraversato dal suo lancio, 15 anni fa, col trattato di Maastricht, sottolineando il meccanismo causa effetto che le decisioni (meglio sarebbe dire le non decisioni) dei governi hanno generato sull’euro, ad iniziare proprio dalle modalità con le quali il Consiglio di Maastricht ne decise il varo. Vale la pena ricordare che, in quell’occasione, venne sottostimata la raccomandazione del presidente della Commissione Jacques Delors, padre della moneta comune, a creare, contestualmente all’euro, meccanismi che rendessero compatibile il suo funzionamento con gli squilibri regionali e i bisogni del mondo del lavoro.
Quando, verso la fine dello scorso decennio, gli squilibri della finanza pubblica e il debito di paesi di eurolandia causarono la caduta di fiducia nell’euro e gli interrogativi sulla sua tenuta, in molti ricordarono il messaggio di Delors, chiedendosi se se ne potesse recuperare la sapienza politica ed economica. In realtà, le misure che si sarebbero assunte in risposta alla crisi, non sarebbero andate in quella direzione, dando prevalenza al crisis management invece di mettere mano a riforme di più lungo periodo. I governi non erano pronti per queste riforme, né la Banca europea aveva poteri sufficienti per farle in modo autonomo. Inoltre, le procedure decisionali, sempre tese all’unanimità dei rappresentanti governativi, allungavano i tempi delle risposte che il management dell’euro era chiamato ad esprimere nelle diverse fasi della crisi. Ciò ha comportato di arrivare spesso, tardi e male a decisioni dil rallentamento delle decisioni necessarie al fixing dell’euro.
Non casualmente, sottolinea il rapporto Arel, quando, nelle fasi recenti della crisi europea, i governi accettano riforme di più lungo periodo, ad esempio sull’unione bancaria e fiscale, sulla flessibilità e la convergenza delle economie, l’euro torna in salute e si riducono taluni squilibri finanziari tra i paesi che lo hanno adottato, vedansi gli interessi sui titoli dei debiti sovrani. La verità è che, senza il governo politico, nessuna valuta può resistere alle intemperie. E che quindi le debolezze dell’euro, come in generale dell’economia europea, vengono non da “troppa Europa” ma da “troppo poca Europa”. E’ auspicabile che gli elettori lo capiscano e votino conseguentemente, pur nella tenaglia nella quale sono stretti da crisi e populismo. Le istituzioni hanno bisogno del mandato popolare, per una modifica dei trattati che sposti i necessari poteri dagli stati all’Unione, non che portino al disastro di nuovi egoismi nazionalistici.