Per i podisti o runners di tutto il mondo la maratona di Boston é un traguardo ambito. Tagliare il traguardo in Boylton Street nel cuore di Boston dopo ventisei miglia con partenza da Hopkinton è il sogno, o se vogliamo l’ambizione, di ogni podista di buon livello. Per diversi motivi: la maratona di Boston è la più antica del mondo (quest’anno celebra la 118ª edizione), si è ammessi alla partenza attraverso tempi di qualificazione molto severi, ma soprattutto perché la gara mantiene un’anima antica. Di paese. Proprio dello spirito podistico delle gare di paese. Niente a che vedere con le altre maratone che transitano o arrivano in luoghi famosissimi: Londra davanti a Buckingham Palace, Berlino alla Porta di Brandeburgo, Roma ai Fori imperiali, New York a Central Park. Niente di tutto questo offre Boston. Mantiene un profilo basso. Si corre attraverso la campagna del Massachusetts. Si attraversano paesini anonimi destati solo dallo scalpitio di migliaia di podisti. Si ha un sussulto di tifo da stadio quando si transita davanti al Wellesley College ove un muro umano di studentesse incita a viva voce i podisti. Si supera un difficile cavalcavia denominato Heart Break Hill… niente a che vedere con i saliscendi della maratona di New York. Si entra finalmente a Boston e si arriva nel vialone di Boylton Street: ottocento interminabili metri per la consacrazione finale.
Alla maratona di Boston si approda già solo con un eccellente tempo di qualificazione. Dunque la gara dovrebbe validare il tempo di qualificazione o addirittura nei sogni del podisti migliorarlo. Il rituale è il solito. Si corre il terzo lunedi di Aprile, festa statale in Massachusetts (Patriot day). Si arriva a Boston da ogni angolo del mondo tra la il venerdì e la domenica.
Ho corso la maratona di Boston due volte: nel 2009 e nel 2013. Stesse sensazioni, stessa tensione, stesso rituale compreso la scelta dell’Hotel: Cambridge (per tranquillità e costo). Boston è a tre fermate di metropolitana (che a Boston chiamano T).
Nel 2013 corro la maratona di Boston con il mio amico podista Aldo e con una amica di New York. Ci troviamo la domenica all’expo della maratona per prendere il numero di gara (il mio è il 6874 coral 7 wave 1). Insomma parto nel gruppo dei competitivi, esclusi i campioni. Dopo il ritiro del numero facciamo il consueto giro del centro di Boston per acquistare qualche souvenir della maratona e per entrare appieno nello spirito di questo straordinario evento. La sera non può mancare il consueto carbo load (la scorpacciata di carboidrati) che facciamo al North End di Boston. Il quartiere italiano è super affollato da turisti e maratoneti. Uno spettacolo. Un grande pezzo d’Italia fuori d’Italia. La mattina della maratona ci si reca a Boston per raggiungere Hopkinton con i pullman del servizio gara. Atmosfera piacevole, rilassata. Musica per elettrizzare l’ambiente, poi il minuto di silenzio per ricordare le vittime della sparatoria nella scuola del Connecticut. Infine il momento dell’entrata nei coral. Un po’ come per i cavalli del palio di Siena quando entrano nei canapi. Alla Maratona di Boston prendono parte tra i 26.000 ed i 27.000 atleti. Tra quelle del Gran Tour delle maratone è la meno affollata.
Si parte. L’avvio come sempre è caotico. Tanti podisti da evitare, qualche caduta. Poi dal secondo miglio in poi la gara (individuale più che mai) scorre veloce. Italiani, francesi, tedeschi, scozzesi, spagnoli, sono tanti i podisti di ogni nazione che si incrociano sul percorso. Per l’edizione del 2013 ho programmato di fare meglio del 2009 (corsi in 3h 08m). Ma già a metà gara mi rendo conto che le gambe non girano come desidero (transito a 21km in 1h 31m). Non male, ma so che è un ritmo che difficilmente riuscirò a mantenere fino alla fine. Da NY e dall’Italia mi seguono attraverso un complicato sistema elettronico predisposto dagli organizzatori. È possibile, infatti, seguire miglio per miglio ogni podista. Non voglio deludere i miei sostenitori.
Al miglio ventesimo avverto un forte calo nel mio ritmo. Capisco che i sogni di primato personale vanno rimandati. Rallento . Penso a finire la gara senza troppi danni fisici. In effetti le ultime tre miglia non sono una passeggiata. Approdato in Boylton street la marea umana di sostenitori mi darà una spinta energetica di non poco conto… sembra di volare… quasi cammino. Taglio il traguardo. Dodici minuti in più del mio PR. Pazienza. Sono gli imprevisti della maratona. Mi reco al ritiro della medaglia (per tutti!). Ritiro la mia borsa e mi cambio. Ritorno a Cambridge. In hotel mi accorgo che qualcosa di insolito è accaduto alla maratona. Noto una calca di persone vicino al televisore. Si parla di un attentato. Una bomba. Forse due. Via Facebook rassicuro tutti che ho concluso la maratona e sto bene. Chiamo Aldo anche lui in albergo ed in procinto di volare a Tokio per lavoro. Anche lui sta bene. Avviso la mia famiglia di non preoccuparsi.
Ecco da ora inizia la mia partecipazione emotiva e non solo all’attentato di Boston. Iniziano ad arrivare i messaggi sms: ne conto 95 in meno di due ore. Ricevo telefonate dalla Cina, da Israele, tantissime da New York per accertarsi della mia incolumità. Mi reco a Boston. Sono bloccato dall’FBI che ci invita a scendere dalla subway e proseguire a piedi. L’amico Andrea Fiano da Milano Finanza mi chiama e mi chiede di fare un collegamento con l’Italia. In effetti non ho molte informazioni. Gli altoparlanti annunciano di restare in albergo. Mi avvicino a Boylton street. Riesco ad arrivare all’incirca a 300 metri dall’esplosione. Nessuno parla. Chiedo delle informazioni a dei sanitari. Si mantengono sul vago. C’e’ un decesso forse due.. tanti I feriti. Vedo migliaia di atleti arrivare in pullman o a piedi. Mi dicono che sono stati bloccati all’ingresso di Boston e dirottati su strade secondarie. Decine di auto civetta della polizia attraversano la città. Mi chiamano da La Stampa (da Torino) riesco a fornire poche notizie. Ancora non si conosce la matrice dell’attentato. Esplosione o terrorismo? Ad un tratto l’intera area di Boylton Street è sigillata – chiusa. Nessuno entra. Nemmeno i giornalisti. Sono invitato ad allontanarmi. Nel frattempo mi reco in un parco ove sono dirottati i podisti. Regna una enorme confusione. Ognuno cerca di mettersi in contatto con i propri familiari. I servizi telefonici funzionano male. La polizia continua ad avvertire di lasciare il centro di Boston e restarsene in albergo. Il mio cellulare va scaricandosi.
Alle 18 riprendo il treno per New York. La stazione di Boston è affollatissima. In treno nessuno parla. A Providence ci fermiamo e i cani antiterrorismo annusano ogni borsa. Intuisco, ma era chiaro da tempo, che si tratta di terrorismo. Ancora ignota la matrice. Arrivo a New York a Penn Station, all’incirca alle 11. A casa dopo venti minuti. Rispondo alle decine di email pervenutemi e agli sms. Non mi sembra ancora possibile. Una giornata di gioia per una città e per i podisti di tutto il mondo devastata da un attacco terroristico.
Riprendo a correre dopo qualche giorno. Non manca la paura e l’ansia. Niente sarà come prima. Da ora anche alle maratone bisogna sottoporsi a controlli severissimi. Ed è quello che avviene a novembre alla maratona di New York (che corro e dedico ai caduti di Boston). Lo spirito della maratona e del maratoneta sono indomabili. Si corre per tantissimi ragioni. Ognuno ha la sua. Si corre per il trionfo della vita e dello spirito umano sulle tenebre e sulla violenza. Lunedì prossimo a Boston si correrà per ricordare le vittime e per sancire che la libertà di espressione – sia essa perseguita nello sport, nell’arte, nella letteratura – non potrà mai essere annientata.