La retrospettiva dei film di Marco Bellocchio che inizierà il 16 aprile al Museum of Modern Art di New York è un evento molto importante, perché può consentire al pubblico americano di conoscere un regista italiano di grande valore, sia per l’appassionata e tenace ricerca di libertà creativa, sia per la straordinaria capacità di rappresentare le pulsioni del mondo interiore, non in modo introspettivo, bensì attraverso la fisicità dei corpi e dei comportamenti.
In alcuni film questa caratteristica emerge in modo compiuto e pervasivo, dando vita a opere di grande forza e originalità: a mio avviso ciò vale soprattutto per I pugni in tasca (1965), Nel nome del padre (1972), Il gabbiano (1977), Salto nel vuoto (1980), Il principe di Homburg (1997), La balia (1999), L’ora di religione (2002), Buongiorno, notte (2003). Anche nei film meno riusciti la dirompenza fisica delle immagini, sia pure solo a tratti, è tuttavia sempre presente: un esempio emblematico è la scena iniziale della seduzione sessuale ne La condanna (1991), rispetto ai forti limiti ideologici e stilistici del resto del film.
Un’altra peculiarità di Marco Bellocchio è la capacità non comune di continuare a perseguire la propria libertà intellettuale e artistica, non solo negli anni sessanta e settanta, ma anche durante la lunga crisi del cinema e della società italiana negli anni ottanta e novanta: prova ne è che agli inizi del duemila Bellocchio è riuscito a esprimere un nuovo sguardo, altrettanto ribelle e penetrante, non solo rispetto al presente (L’ora di religione), ma anche rispetto al passato (Buongiorno, notte). In quest’ultimo film Bellocchio ha adottato per la prima volta un nuovo stile, che egli stesso ha definito “realismo onirico” o “visionarietà discreta”, già preannunciato ne Il principe di Homburg. La sua peculiarità consiste, da un lato, nel rappresentare gli aspetti onirici o visionari in modo molto realistico e, dall’altro, nell’operare continui sconfinamenti impercettibili dalla rappresentazione realistica dei fatti alla loro percezione soggettiva e immaginaria.

“I pugni in tasca” 1965
Nonostante le continue innovazioni tematiche e stilistiche, la continuità del cinema di Marco Bellocchio consiste soprattutto in una peculiare capacità di cogliere gli scarti e le contraddizioni della realtà esistenziale degli individui rispetto alle norme sociali e alle ideologie politiche. Ho avuto un’interessante conferma di ciò da una indagine sulla capacità del cinema italiano di rappresentare e scandagliare l’utopia del Sessantotto di creare un legame diretto tra ribellione esistenziale e lotta politica. Nel corso della ricerca mi sono imbattuto infatti in numerosi film di Bellocchio e alla fine ne ho scelti due, che significativamente, pur essendo molto lontani nel tempo, sono ugualmente incisivi e illuminanti.
Per quanto riguarda la ribellione giovanile prima del ‘68 ho scelto I pugni in tasca (1965), perché questo film non solo ha espresso con appassionata partecipazione l’insopportabile sofferenza esistenziale dei giovani per l'oppressione familiare e l’improrogabile necessità di ribellarsi, ma ha anche disvelato con lucido distacco le drammatiche contraddizioni di una rivolta confinata all’interno della famiglia, per nascondere la propria paura di "uscire all'esterno". In questo modo il film è riuscito a prefigurare, sia pure solo "al negativo", la nuova esigenza di lottare contro la società "a partire da sé", che si configurò “al positivo” soltanto nel ’68 con la contestazione studentesca.
Per quanto riguarda il terrorismo ho scelto Buongiorno, notte (2003), perché il film è riuscito a rappresentare con grande efficacia, non solo la cecità politica, ma anche l'alienazione esistenziale dei terroristi: sia per il vuoto e l'aridità della loro vita personale, sia per la riduzione degli avversari ad astratti simboli politici. Il film mostra con spietata lucidità che gli "anni di piombo" sono stati una tragica “eterogenesi dei fini” rispetto all'utopia originaria del ‘68: nel senso che il terrorismo ha rimosso ogni istanza di “liberazione esistenziale” e ha sublimato la politica nella lotta armata.
* Alberto Tovaglieri ha insegnato Storia dell’Unione sovietica, Storia contemporanea, Cinema e storia all’Università di Siena. Si è occupato a lungo dei conflitti tra utopia politica e realtà storica. Dagli anni ’90 ha utilizzato il cinema per indagare le contraddizioni tra lotta politica e ribellione esistenziale. Per l'editore Rubbettino, ad ottobre esce il suo libro "La dirompente illusione. Il cinema italiano e il Sessantotto 1965-1980"