Il Carlo più grande della storia, "Re dei Franchi" e dei "Re dei Longobardi", "Imperatore del Sacro Romano Impero", così Magno che a 1200 anni di distanza siamo qui a parlarne, muore ai settantadue nell’814. Era stato incoronato imperatore a Natale dell’800 in san Pietro da Leone III, che i partigiani del precedente papa, Adriano I, definivano simoniaco, fornicatore e violento. Esponenti dei due poteri del tempo, condannati a contendere per la supremazia ma uniti nel segno del realismo e della preferenza per Roma rispetto a Bisanzio, Carlo e Leone s’erano visti un anno prima a Paderborn, in Vestfalia. Leone aveva raccontato che i ribelli gli avevano strappato occhi e lingua, restituiti dall’intervento divino. Re e famigli, tra i quali il grande erudito Alcuino di York, non l’avevano bevuta, pur ritenendo di dover appoggiare Leone e ottenere in cambio il titolo di imperatore, da nessuno goduto in Occidente dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476.
Quando Carlo, pieno di doni, giunge a Roma, il 23 novembre, il papa gli va incontro a dodici miglia dall’Urbs. All’incoronazione, unge di olio sacro il Franco inginocchiato, lo fa acclamare dal popolo nell’uso antico imperiale, subordinandolo così al “potere romano”. Carlo non gradisce. Non gradiscono neppure nella capitale dell’impero d’Oriente, la raffinata e indebolita Costantinopoli, dove commentano: “Roma è caduta sotto la signoria di un barbaro”. Come se Roma, imbarbarita non lo fosse da centinaia d’anni, e non provasse, nell’accordo tra Carlo e Chiesa, a ristabilire principi di ordine e autorità, contro i particolarismi e le anarchie della dissoluzione post-romana.
Un metro e novantadue, pronuncia tedesca dalle sonorità aperte e stridule, “occhi grandi e vivaci, capelli bianchi e folti”, Carlo generò, radicandola nella grandezza classica, un’Europa unita, protettrice di Roma cristiana e del suo potere temporale, capace di sfidare l’espansione arabo-islamica. Non fu uno stinco di santo. Massacrò interi popoli e se la spassò quanto poté: faceva pasti di decine di portate che finivano con dessert di arrosto (in barba ai medici che gli raccomandavano i lessi) e formaggi tra i quali il Brie dalla scorza ammuffita magnificatagli da un amico abate. Ebbe almeno cinque mogli, una miriade di concubine, più di venti figli. Nelle terme edificate ad Aquisgrana, faceva il bagno con mogli, figli, figlie, concubine, amici, Alcuino. Era una roccia, ma la vita di guerra ed eccessi (si dice ancora oggi, ironizzando: “ne ha fatte quante Carlo in Francia”) contribuì a portarlo alla tomba prima del tempo, complice la febbre maligna presa durante la caccia di un mattino umido e freddo. Funerale e banchetto funebre furono allestiti da figlie e nipotine, poi cacciate dal figlio di Carlo, Ludovico il Pio, contrario alla predilezione paterna per il gentil sesso.
Il Pio era stato incoronato già nell’813, affiancando in tempo Carlo ad Acquisgrana: e stavolta il franco incoronato se ne era stato ritto davanti al pontefice. La dinastia era cresciuta: aveva all’attivo le guerre contro Avari e Sassoni, la capacità di inserirsi nelle rivalità tra arabi invasori, gli ottimi rapporti con il califfo arabo di Bagdad, il no alle pretese onnivore del papato, incroci dinastici che salvaguardavano talune autonomie nei rispetti del centralismo. Aveva avviato i processi politici e culturali che, nei secoli successivi, avrebbero portato alla legittimazione concettuale dello stato come altro-potere costituito rispetto al potere religioso. Carlo merita tuttora l’omaggio che gli riconobbero epigoni come Ottone III nel 1000 (ne aprì il monumento sepolcrale onorando con gesti munifici la mummia in trono), Federico Barbarossa nel 1166, i padri dell’attuale Unione Europea.
Un tempo i politici cercavano ispirazione nei grandi che li avevano preceduti.