Che sta facendo Papa Francesco? La domanda, questa domanda, talvolta inquieta, talaltra curiosa, sempre sorpresa, lo insegue sin da quel “Buonasera” con cui, il 13 Marzo dell’anno scorso, si volse al mondo, gli si presentò. Al mondo, non solo al Popolo di Dio. E in questa apertura inusitata alle multiformi incertezze di ciascuno si è immediatamente colta un’epifania, una spiazzante apparizione. Non per l’accostarsi a chi “non vive in grazia di Dio”, giacché suscitare e accogliere è anzi il movimento spirituale proprio della Chiesa. Ma per il modo: ad incertezza, incertezza; a gracilità, gracilità, ad individuo, individuo. Senza con ciò duplicare una carenza, è sembrato istituire un linguaggio comprensibile ai “più”, come una mano tesa. E il “mondo”, specie il belmondo, entusiasticamente lo ha corrisposto; lusingato e, magari, anche lusingante.
Dalla Loggia delle Benedizioni si è affacciato sul vasto mare tempestoso del “contemporaneo”. C’è sempre stato, si dirà, un “contemporaneo” nel quale mareggiare, per la Chiesa di Roma. Tuttavia, una presunzione storicistica o una sapienza nascosta sembrano suggerire che Scienza e Tecnologia, il nostro contemporaneo, il nostro futuro, costituiscano un approdo rudemente frastagliato, di fronte al quale, per sommo di ostilità, i marosi minacciano di abbattersi con una violenza definitiva, tale da sommergere riva ed entroterra. Forse viviamo un tempo eccezionale. Un tempo in cui l’uomo e la sua “arte”, la sua technè, hanno valicato soglie inimmaginabili per millenni, al di là delle quali Dio e il suo attributo essenziale, il tocco che dà la vita, sono rivendicati come il sé, come il proprio.
Biotecnologia è lo spazio profondo dell’immensità sconosciuta, che spinge per rivelarsi. La Rivelazione è Tutto. Chi rivela è Tutto. Se l’uomo rivela, l’uomo è Tutto. Perciò, potremmo essere davvero su una soglia eccezionale. O già poco oltre.
Chi crede accetta con serenità la Provvidenza, un’Intelligenza superiore e amica, e, così, divina. Ma anche chi non crede potrebbe interrogarsi sulla sintonia fra la possibile eccezionalità del nostro tempo e l’eccezionalità che ha pervaso, sin dal suo presupposto, questo Romano Pontefice: le dimissioni di Benedetto XVI, la loro enormità (non abnormità) paiono proiettarsi sul cammino intrapreso dal successore. Che decide di fare e dire cose enormi: se non eccezionale, dopo Giovanni Paolo II, certo è accentuato, nel segno della “spoliazione”, l’abito pastorale mediatico, quella che è per gli altri la “comunicazione”.
Abito bianco e basta; croce pettorale di ferro; valigetta da agente di commercio in mano; parla ai giornalisti come un istruttore di scout, stando in piedi, appoggiato con un gomito al poggiatesta di un sedile, su un aereo che lo riconduce dalla festante e festaiola Copacabana alla ancora troppo “curiale” Roma; apre un account su Twitter; dialoga con Eugenio Scalfari che, beneficiando di un’investitura simbolica generosissima, viene assunto ad “interlocutore laico”; dice messa a Lampedusa, salutando i “frutti del Ramadan” e imprimendo su quei disperati lo stigma di un nuovo Esodo; disgiunge la manine congiunte di un chierichetto, chiedendogli se non le avesse incollate (il bambino, comunque, dopo la problematica ironia, le ricongiungerà); si nomina Vescovo di Roma più che non Papa. Insomma vuole subito rendere l’idea.
Ma quello che dice? Al confronto di quello che dice, quello che fa, come lo fa, è liturgia ortodossa. Sull’aereo la butta lì, con levità dirompente: “Chi sono io per giudicare?”, parlando del sentire e dell’agire omoerotico. Detto dal Vicario di Cristo. E uno. Al Giornalista-Fondatore dice: “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo a migliorare il mondo”. Ma si sapeva: “Io sono il Signore Dio tuo; non avrai altro Dio fuori di Me”. E due.
Questo non è un manifesto, robetta per poveri uomini. Questo vuole essere un nuovo Annuncio e, se non bastasse, soffiato con l’agilità di uno spot. Comprensibile l’entusiasmo. Comprensibile lo sgomento. E, probabilmente, in quest’ultimo caso alla fine ha prevalso lo sgomento, se l’intervista, dopo essere stata esposta sul sito vaticano per un mese e mezzo, ad un certo punto, è sparita. Il seme, però, è stato gettato. Che seme sarà mai?
Di fronte a quel mare così violentemente scosso, a quello spazio incommensurabile che rischia di implodere, il Deposito della fede, la Tradizione sono stati chiamati a raccolta: come in guerra. E, come in guerra, ha chiesto e annunciato sacrifici: li ha chiesti a ciò che si è vissuto, e a come lo si è fin qui vissuto; li ha annunciati, nel suo modo dolce e problematico, da gesuita, anche a ciò che si dovrà vivere. Niente sembra scontato.
Francesco si è scelto un nome grande; la coscienza individuale, che viene innalzata ad una responsabilità mai vista prima, è posta quale avanguardia impavida di fronte a Faust. Tutto quanto è stato, l’Ordine paterno e materno della Chiesa, le preghiere secondo liturgia, Roma e il Colonnato di San Pietro, il tesoro innumerabile di sapere e sapienza giunto da Atene e Gerusalemme, sono arrivati ad un passo da vertigine. Ma, per un Papa venuto “dalla fine del mondo”, in fondo, è il minimo.