C’è una parola che passa di bocca in bocca, titolo di uno dei film più chiacchierati degli ultimi anni, oggetto di discussione di apertura del Festival di Sanremo, materia di riflessione in molti saggi (Umberto Eco, Tzevetan Todorov, Roberto Saviano e Gianfranco Ravasi tra gli altri) e di narrazione in molti romanzi (Raffaele La Capria, Giorgio Montefoschi, Silvia Avallone, ecc…).
La parola è bellezza. Quella bellezza salvifica, “La bellezza salverà il mondo” si dice, si scrive e così si intitolano molti libri. Vivere nella bellezza ci fa diventare belli, al contrario il degrado, la bruttezza ci rende brutti, non solo nell’aspetto ma anche nelle azioni. Basta pensare ad una scuola grigia che rende tristi, con il cemento che cade a pezzi, i pavimenti scoloriti, i muri scrostati, i vetri talmente sporchi che non vedi fuori, e la cattedra e i banchi che sembrano essere lì da quando a scuola ci andavano i genitori. Quando è così, avvolti nel brutto, ci sentiamo brutti. La bellezza diventa momento straordinario, al quale non si è abituati. Eppure l’Italia, il “Bel paese”, possiede, come pochi altri al mondo, tanta bellezza. Non solo quella metaforicamente interpretata ne La grande bellezza del film di Sorrentino, ma la bellezza artistica, delle forme in armonia con i contenuti, dell’aspirazione ad un senso della perfezione che può e sa farsi umana.
È un amore per le forme, figlie di una cultura che ha da sempre amato il bello, che lo ha cercato, l’ha voluto e raggiunto. Ha toccato l’apice con Leonardo da Vinci, Giotto, Michelangelo ma non solo, anche particolari meno noti, come palazzi, strade, angoli di paesi e cittadine un po’ ovunque nella penisola sono in grado di suscitare l’ammirazione, l’incanto. Già, l’incanto, quello che ci fa riappropriare del mondo, dell’essere, dell’esistenza e che spesso siamo costretti a non godere, assoldati al servizio di una ragione monopolizzatrice e strumentale dell’agire umano. La bellezza è esattamente incanto e meraviglia suscitati nelle strade italiane, alla ricerca di un’ultima foto a Ponte Vecchio o ai resti dei Fori Imperiali. O ancora per poter osservare, alla maniera di un raccoglimento in preghiera, un altro momento le armonie delle forme del David di Michelangelo, come appartenessero al soprannaturale, al divino, all’universale, all’evento iniziale.
L’incanto però può divenire incantesimo, sortilegio di un’estetica che trascolora in ostentazione, esibizione di potere e prestigio, che fa dell’altro solo spettatore passivo di sfilate di abiti, banchetti, come a volere ricordargli la sua estrazione miserabile, contadina, villana. L’esibizione, la cultura di un’immagine fine a se stessa, che irrompe sulla scena con arroganza e presunzione stringe all’angolo, colpisce nella moralità più profonda, sazia del superfluo. Le superfici si distaccano dalle essenze, le forme si perdono nell’autoreferenzialità.
Sono le parole del Cortigiano di Castiglione, impegnate a raccontarci più come fare, piuttosto che cosa fare. È la storia di sempre, un gioco di forme e contenuti, che variano, si intersecano, si disconoscono e poi si riconoscono nella falsa modestia, nell’ipocrisia del predicare bene e razzolare male. Nasce qui, a mio avviso, quel sorriso bizzarro che compare sul viso degli stranieri non appena si comunica loro l’appartenenza alla cultura italica. È un sorriso insolito, di simpatia ma che sembra ravvisare poca credibilità, spiattellare in faccia una condizione di perenne inaffidabilità, di mancanza di serietà, di promiscuità, di pressappochismo.
Come ben descrive il letterato Poliziano: “Ser Cozzo, Notaio fiorentino, lasciò per testamento a. suoi due figli questo motto: dite sempre bene, e non lo fate; fate sempre male, e non lo dite..”. Così, non appena capita l’occasione ci gettiamo a capofitto in una spiegazione come avvocati d’ufficio, sul fatto che alla fine in Italia si sta bene e le cose non vanno poi così male, salvo la politica, salvo la sanità, salvo il traffico, salvo i rincari, salvo la maleducazione, salvo il dolce far niente, salvo… Ci impegniamo un po’ tutti in quell’arte retorica di natura sofista, che ammalia e nutre l’animo, che vagheggia sul mondo ma lo rende più amabile, che spettegola degli altri, ma con i quali in qualche modo comunica. L’accompagniamo tra gesti inconsulti e risate di scherno o di allegria, tra carezze affettuose e pacche sulle spalle, tra manfrine smodate e sceneggiate incontrollate.
Indossiamo maschere che ci difendono, attaccano, simulano e dissimulano, mentono per “machiavellicamente” giungere all’obbiettivo. Con le maschere preferiamo parlare e sparlare degli altri. Meglio interessarci di loro piuttosto che svelare i nostri misteri, a meno di non essere i protagonisti della scena, i padroni del teatro ed allora gli elogi devono abbondare, essere dispensati smisuratamente. Nell’intrigante arte di spettegolare dell’altro, ci divertiamo a prenderlo un po’ in giro, subito, prima che sia lui a comandare il gioco, a gettare fango sulla dignità, l’onore, la famiglia, “meglio far torto che patirlo”. Così l’altro lo guardiamo, lo scrutiamo, cercando di coglierne l’animo, alla ricerca di una conferma o piuttosto di una novità.
Siamo degli “origliatori”, ma per difenderci. Come Medea, che comprende ed approva il meglio ma opera il peggio, ci lanciamo in disapprovazioni lamentose e disgustate di come va il mondo, di come va l’Italia. Allora, ci percepiamo come vittime di un sistema che non lascia alternative, e sembriamo incarnare, tutte le virtù e i vizi immaginabili. Chierici che credono di “saperla lunga”. Così la maleducazione è sempre dell’altro, come l’ignoranza, il raggiro, l’indifferenza e la colpa può essere comunque assolta. Basta fare un mea culpa, magari solo di fronte a Dio. Forse basterà una preghiera, quando pare, come scrive G. Salvemini, che: “si punisce il peccato come se fosse un delitto, e si perdona il delitto come se fosse peccato”.
E così da la bellezza e la bruttezza si affiancano, il vizio e la virtù si accompagnano. Lo storico Jacques Le Goff scrisse: “E l’Italia trasmise tutto, il bello e il brutto”. A noi, individui, resta il duro compito di riconoscere le differenze.