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December 14, 2013
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Gli articoli di Vaccara e Vecellio su Rosy Canale, la storia antimafia e l’unzione preventiva

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
In alto Rosy Canale

In alto Rosy Canale

Time: 6 mins read

Caro Direttore,

ho letto il tuo pezzo su Rosy Canale ed anche quello di Valter Vecellio. Avete scritto come meglio non si poteva. 

La vostra è stata una lezione per i pusillanimi.

Intanto, avete fatto sentire una parola di stima e di rispetto. Che, fra persone oneste (cioè, latinamente, onorevoli) rimane alta in ogni caso, dato che (eventualmente) errare è umano. Però, una che si è fatta pestare a sangue, rischiando persino di peggio, e forse evitandolo solo perchè troppo nota (in certi contesti, infatti, la notorietà della vittima è un ostacolo che si affronta, e definitivamente si supera, quando proprio non se ne può fare a meno) avrebbe fatto prima a chiudere un occhio sul losco tramestio che si voleva impiantare nel suo locale, così risparmiava le sue ossa e magari si prendeva pure la sua parte. Così, leggere di queste accuse mi induce, perlomeno, molta cautela (e, come sai, non mi viene difficile, data la mia radicale disistima verso il processo penale e suoi attori vari, simil-avvocati compresi).

E se, dico se, i movimenti finanziari fossero provati, la distanza fra una leggerezza, una debolezza (ho letto sul "trapelato" che la situazione familiare non è delle più agevoli, in termini economici) e una manovra speculativa sarebbe ancora troppo indefinita, per giustificare senz'altro una misura cautelare, con annessa distruzione preventiva di reputazione e di personalità.

Dalle dichiarazioni che vengono riportate, chi conduce le indagini non fa mistero di voler perseguire uno scopo esemplare: "con l'antimafia non si scherza, sono morte troppe persone". E ancora: "attenti a quelli che si ergono a paladini antimafia senza avere una storia". Scopo esemplare che ridurrebbe la libertà personale da bene primario comprimibile solo per ragioni processuali a materia inerte e improprio strumento per avventurosi e incontrollabili impulsi moralistici.  Quale inquinamento, e quale pericolo di fuga, quale rischio di recidiva trapela dalle dichiarazioni del magistrato? Naturalmente, gli stilemi si possono sempre scrivere, e le ordinanze custodiali sempre ne abbondano.

Quanto all'adeguata "storia antimafia", ripeto, i tre anni necessari per riaversi dal pestaggio intimidatorio e punitivo, una qualche storiella a dire il vero la raccontano. Ma è il concetto stesso di "storia antimafia" a dare le vertigini. A quanto pare non ci si avvede come sia la stessa idea di poter fare dell'antimafia una "storia", a fomentare inevitabilmente ogni sorta di impostura. E cosa s'intenderebbe, poi, per Antimafia "storicizzabile"? Un contegno personale? Ma, come si vede, non è facile; un sentimento? E rimarrebbe dov'è; una fede? Ma ci sono anche gli agnostici; un'organizzazione politica? Affonderebbe nelle contese. Questa storia della "storia" sa di unzione preventiva per un Corpo di Eletti, utile solo al potere di chi la imprime: Ad liberandam Terram Sanctam, si scrisse nel 1215, IV Concilio Lateranense, in vista della Prima Crociata. Mah!   

E' sempre bene citare il Maestro Leonardo Sciascia. Tuttavia, lui per primo, sapeva di essere vox clamans in deserto. Se almeno qualcuno del c.d. Fronte della legalità, ottenebrato dall'Idolo Polemico Unico di questi anni traesse spunto per riflettere su sè stesso e sulle sue pulsioni, asseritamente culturali e politiche, l'ennesimo abuso giudiziario (perchè tale rimane in ogni caso, visto che, comunque, la si poteva processare a piede libero) potrebbe risultare non del tutto inutile.

E, sia detto per inciso, i c.d. meriti antimafia non dovrebbero confondere. Nè credo sia sensato ed educativo diffondere l'idea di un'ascesi antimafia. Di fronte alla quale tacere e pregare. Se qualcuno muore nell'adempimento del proprio dovere mi addoloro, per la persona, per le istituzioni e per la comunità che ne viene privata; e, per i caduti, chino il capo, reverente alla loro memoria. Ma i sentimentalismi e le tifoserie adolescenzial-emotive proprio non attaccano. Tanto per essere chiari, anche su certa abitudine (quando si avanza, nemmeno una critica, ma anche solo un dubbio) di premettere che questo o quello è una persona seria, o uno impegnato e così via. Sa di "Con rispetto parlando". E dove siamo? C'è o non c'è libertà di pensiero e di opinione in Italia? Sono lautamente remunerati, socialmente ossequiati e temuti, istituzionalmente potentissimi, appropriatamente tutelati e protetti; e i rischi, compreso quello della vita, li corre, come e più di loro, anche una vasta congerie di persone (pure questo ribadiva Falcone) a cui nessuno lo riconosce. E che non possono mai invocare un minimo di quello stesso benevolo rispetto preventivo così largamente tributato al feticcio-toga, come sanno, per es: gli imprenditori del Sud.

E mi riferisco a quelli che rimangono fra i non ancora liquidati da Equitalia e dalla sua impiegatizia rigidità -un Terminator che mostra di non comprendere come gli ordini superiori (in questo caso, della Legge), quando l'eccezionalità del caso lo impone, vanno disattesi, cioè adeguatamente interpretati. Altrimenti, aveva ragione Priebke. Senza contare la moral suasion, dato che non è certo l'omino del chiosco. Potrebbe dire: non voglio fare il Terminator con questi poveracci, aiutatemi! Ma perchè, infatti, non si indìce una bella conferenza stampa, anzichè su Cortina a Capodanno, che più si addice ai fratelli Vanzina, sull'imprenditore a cui ha chiesto 200 mila Euro, e poi, visto che non pagava questa somma, 400 mila e poi ancora 800 mila? O su quell'altro, vicino Pisa, che ha demolito il capannone perchè non poteva pagare l'IMU?

Questi misconosciuti del rischio, vengono stretti fra ulteriori morse indicibili, e anzi, spesso, se non si allineano alla vulgata ipocrita della "collaborazione-tanto-ormai-è-quasi-uno-scherzo", si oppone una diffidenza e uno sberleffo che aggiunge offesa a pericolo e a sofferenza. Ci sono, infatti, storie opposte dietro questa vulgata: certo di furbastri che si sono arricchiti (non solo economicamente; le carriere politiche sono state e sono, com'è noto, un primario terreno d'elezione), ma pure di povericristi che si sono rovinati, rimanendo negletti ed emarginati assai più che se avessero pagato ai malfattori ufficiali.

Ed infine: Libero Grassi non è e non può diventare una categoria normativa di comportamento, se non si vuole giocare sporco con le parole. E' stata un'immane tragedia, un nobil uomo, un aristocratico naturale finito martire, ma non può costituire il paradigma di un comportamento guiridicamente esigibile, come a caldo sottolineò ancora lo stesso Falcone, se non ricordo male in un'intervista al TG1. E come dovrebbe essere a chiare lettere finalmente riconosciuto, liberando la sua superiore figura dal viluppo scivoloso su cui si è abbarbicato un infame codazzo retorico ed equivoco. Un conto è portarsi oltre sè stessi e per questo morire, nell'unicità di una scelta intima, profonda, intrasmissibile: dunque, eroica. Un conto è uno Stato che quella scelta priva della sua unicità, riducendola ad ovvietà da ciclostile, e all' "inerme cittadino" (di nuovo Falcone) propone come modello di comportamento il suo stesso omicidio. Tanto il funerale è (forse) pagato. Questa ferocia farisea è incommentabile. Incommentabile. Chiusa la parentesi sull'ascesi antimafia.

Non mi stancherò mai di ripeterlo: essersi messi al fianco di un fantasma militante dell'azione penale, avere creduto che Falcone e Borsellino avessero eredi solo nelle manette facili (peraltro, da loro, mai praticate), avere soffiato sul fuoco che ha bruciato il processo penale di tutti gli italiani, è stata ed è una colpa suicida.

Chiamare tutto questo con l'equivoco nome di legalità, se possibile ha aggiunto colpa a colpa. Basterebbe rileggersi tutto il catalogo Law&Order delle svariate tirannie lungo i secoli. Sempre a base di pubblici ministeri: da Jean Calais nasce il Voltaire del Trattato sulla Tolleranza; da Giangiacomo Morra e Girolamo Ventimiglia, il Manzoni de La Colonna Infame; da Dreyfus, lo Zola del J'accuse; Da Sacco&Vanzetti, se non nacquero, certo si mossero Einstein, Dos Passos, Bertrand Russel, Bernard Show; da Enzo Tortora, si mosse Sciascia; da Sofri, da Canale, da Musotto, da Mannino, da Mori e da nemmeno si immagina quanti altri, chi vorrà. Basterebbe ritornare a queste ignominie e rifletterci qualche minuto. E, poi, se proprio si vuole, sillabare di nuovo quella parola infelice: legalità.

E tutto questo solo per assecondare la propria (e meschinella) rivincita: figliastra di una diffusa quanto incomprensibile invidia (come si fa ad invidiare uno che fa la vita di Berlusconi, io non lo capirò mai!) verso un uomo ricco e potente (e, pressocchè esclusivamente, perchè ricco e potente), pur essendo censurabilissimo sotto una molteplicità di altri e meritevoli profili, messi in ombra dalla "febbre del duplice peccato, di alcova e di moneta". 

E' una colpa storica che nessuno, fra questi scriteriati tifosi della terribile legalità (e purtroppo non solo fra essi) finirà di scontare fino in fondo. Ti prego di scusarmi per lo sfogo.

Fabio Cammalleri, Catania

L'autore di questa la lettera al Direttore, avvocato penalista, scrive su questo giornale la rubrica "Fuori dal Coro"

 

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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