La Corte Costituzionale ha ripristinato il sistema elettorale proporzionale, proprio quello puro della c.d. prima Repubblica. E qual è il problema, verrebbe da chiedere?
È ovvio che nemmeno in materia elettorale sia esistita un’età dell’oro. Ma se si fosse appena appena onesti, proprio perché si tratta di comparare due sistemi, anzi due universi sistematici, cioè due complessi di regole che hanno definito la politica di intere fasi della storia repubblicana, bisognerebbe riconoscere ciò che è accaduto sotto l’imperio dell’uno e dell’altro. Cosa ne è stato della vita di una Nazione, durante gli anni in cui la rappresentanza politica e, a cascata, la vicenda comunitaria e individuale di ciascuno si sono svolte entro il sentiero tracciato con certe regole e non con altre.
C’è bisogno di chiedersi cosa è accaduto dal 1946 al 1992? Se siamo cresciuti, sotto il profilo economico, sociale, culturale e, perciò, politico? E di chiedersi cosa è accaduto dal 1993 ad oggi? Se siamo cresciuti, sotto il profilo economico, sociale, culturale e, perciò, politico? Non dovrebbe essere necessario.
Dal 1946 al 1993 siamo diventati, da compagine ex statuale disfatta socio-economicamente, sconfitta in guerra, stato: in cui quattro generazioni di fila hanno acquisito più della precedente in termini di istruzione, tutela sanitaria, occupazione, trasporti, reddito pro capite, libertà personale e patrimoniale, partecipazione politica, sovranità democratica e monetaria. Non senza limiti; non senza disfunzioni; non senza prezzi di sangue; non senza iniquità. Ma, a chiudere gli occhi nel 1946, appena entrati sotto il cielo proporzionale, e a riaprirli nel 1992, quando ne stavamo uscendo per effetto dei Referendum Segni, veda chi può se eravamo o no progrediti. E quanto. Rifare l’esercizio per il tempo maggioritario, dal 1993 ad oggi? Accomodatevi.
La designazione dei candidati per liste bloccate, cioè i c.d. nominati, un premio di maggioranza del 55% senza soglia, cioè a chi arriva primo, anche con il 25% dei voti, non è stato il nerbo di ciò che, con metafora di stanca volgarità maccheronica, era comunemente definito Porcellum? Non hanno simboleggiato la marginalità del Parlamento, l’isterilirsi della rappresentanza politica, il suo farsi appannaggio più del make up che della mediazione sociale, del cicaleccio digitale più che del contatto personale?
Eppure ci si sgomenta, si ansima, si teme. Eppure si afferma diffusamente che il maggioritario è meglio, per definizione. Diciamo allora che la dicotomia proporzionale/maggioritario riproduce lo stesso cortocircuito schizofrenico che ha attraversato le valutazioni sulla prima Repubblica: per un verso, vicenda storico-politica senz’altro grandemente positiva, in quanto legittimante la conformità costituzionale della sinistra comunista italiana, per un altro, matrice di ogni degenerazione, in quanto inibiva il governo a quella stessa sinistra. I meriti, da un lato, i demeriti, dall’altro. E, perciò, sulla stessa china, il c.d. berlusconismo racchiuderebbe tutto il peggio degli anni maggioritari, i suoi avversari, tutto il meglio. Su un fronte, la stabilità, l’alternanza, la chiarezza programmatica, solo parzialmente conseguiti, per le colpe altrui, s’intende, sull’altro, il populismo mediatico, il parlamento sterile, il distacco della rappresentanza, ampiamente perpetrati dal noto colpevole. Donde la schizofrenia in cortocircuito.
Invece, come non è esistita una prima Repubblica buona e una cattiva, così non esiste il berlusconismo, se non come espressione tipica del maggioritario. Che, dunque, connota l’intero sistema e tutti i suoi attori: contenuti, linguaggio, povertà rappresentativa, non vanno posti a confronto fra quelli dei due o tre raggruppamenti politico-propagandistici che si contendono il campo, perché inevitabilmente ne risulta una vistosa omogeneità, Grillo compreso. Anzi, ne potrebbe risultare solo una derivazione degli oppositori di Berlusconi dallo stesso Berlusconi, nei termini di un’imbarazzante dinamica modello/copia, più o meno riuscita.
Il confronto andrebbe fatto, quanto a contenuti, linguaggio e integrità rappresentativa, con le più rilevanti famiglie politiche al tempo del proporzionale, e tirare onestamente le somme, come si diceva.
Se poi si volesse obiettare che non tutti i meriti di un sistema sociale, economico e politico vengono dalle regole elettorali, si potrebbe replicare che nemmeno ne discendono tutti i demeriti. Ma questo sarebbe un paragone fra ovvietà. Ciò che conta è il perimetro della vita comune come definito dai varchi di accesso e di ricambio politico, cioè decisorio, e quale società ne scaturisce.
Il fatto è che la catena di comando, riguardata come ossatura di un intero sistema statale rispetto all’esterno, cioè rispetto alla dimensione geopolitica, cambia molto se vige un sistema elettorale proporzionale oppure uno maggioritario. Rispetto ad una visione dall’esterno, il primo è più frastagliato, più “lungo”, ma pure meno facilmente controllabile; il secondo, più compatto, più “corto”, ma certo meno difficilmente controllabile. Nel primo caso, bisogna penetrare in un sistema con centri di comando presenti a più livelli, sia geografici che istituzionali; nel secondo, la decisione è di tipo verticistico, sicchè, grosso modo, controllando la testa, si controlla tutto.
Sulle preoccupate geremiadi di questi giorni c’entrerà qualcosa l’Euro?