Checco Zalone ha sbancato: Sole a catinelle è il terzo film per incassi nella storia del cinema italiano, dopo Titanic ed Avatar, il primo film italiano di sempre; e, come onestamente rileva il regista Gabriele Muccino, “il cinema, senza film che incassano, non esiste”. Cosa è successo? Come mai? Le ipotesi sono tutte ammissibili, s’intende: ma forse, a giudicare dalle reazioni “culturalmente orientate”, il successo ha a che fare con la sua formula: l’italiano medio, cialtrone e opportunista secondo vulgata (ai giorni nostri un piccolo Berlusconi, ovviamente), che tuttavia non si limita a rappresentarsi senza veli, ma prende pure la parola e si confronta con “i migliori”, con la “cultura alta” (legalità compresa), con “chi sa”: e vince. Infatti, il film un po' sta preoccupando: la critica del Fatto Quotidiano, dietro una stizza malcelata, non ha potuto fare a meno di annunciare che non l’andrà a vedere. Perché sembra che la vittoria del fantomatico italiano medio, lì rappresentato, minacci di essere confermata nel c.d mondo reale: ed anzi moltiplicata da questa marea di presenze.
Se vogliamo, è una storia che si ripete. Ed è la storia di un Paese raramente compreso da ogni ceto intellettuale succedutosi a partire dalla fine dell’Italia liberale; con poche, mirabili eccezioni (Gramsci e D’Annunzio in primis). Perciò è l’Italia della “cultura alta” che maledice l’Italia della “cultura bassa”: semplificando (ma non troppo).
Questa collisione interpretativa (sto nobilitando), questa cecità di ruolo e di visione (ora no), attraversano pure un altro “documento dei tempi”: la sentenza del Tribunale di Milano sulla vicenda Ruby. Che, a suo modo, è un esempio che connette “cultura (alta) della legalità”, altezzosa separatezza, dimestichezza con la “scissione normopoieutica” (cioè, due pesi e due misure), lettura scomunicante dell’italiano medio e, soprattutto, dei suoi vizi: amplificati da Berlusconi, of course, fino a macchiarne il potere sovrano, asseritamente immune da ogni (opportuna) contaminazione terrena.
Uno fra i nostri maggiori storici viventi, il Prof. Carlo Ginzburg, cominciava le sue Considerazioni in margine al processo Sofri, esprimendo “un leggero spaesamento”. Lo spaesamento originava dal fatto che lui, studioso dell’Inquisizione, nel rileggere gli atti di quel processo, era stato investito da parole, formule, procedure apparse troppo familiari, consuete: troppo facilmente riconoscibili. Da questa sorprendente continuità, fra ciò che aveva conosciuto come storico dell’Inquisizione, e ciò che andava scoprendo come cittadino della Repubblica, gli veniva quello “spaesamento”. La cui leggerezza era invero un’allarmata litote.
Quelle considerazioni furono scritte nel 1991. Giusto un anno prima che il processo penale, con Mani Pulite, debordasse dalle aule, pensate per incanalarne lo svolgimento, e si facesse piena permanente, un Vajont quotidiano che avrebbe raggiunto ogni cucina, ogni tram, ogni ufficio, ogni piazza in cui ciascuno si fosse trovato a passare. Seppellendolo, se “pubblica opinione”, sotto una coltre sempre più spessa di indiscrezioni, giudizi anticipati, lapidazioni, “conseguenze politiche”; se “protagonista”, assicurandogli dileggio, gogna, rovina personale. Ciò che, in quella vicenda sinistramente antesignana, accadde puntualmente ad Adriano Sofri: e nel modo primitivo che, nell’Italia del XX secolo, ci si stupiva di constatare ancora vivo e vegeto.
Se ricordo quella vicenda notissima è perché quello spaesamento, da allora, è stato fonte di un altro spaesamento. Che coglie a constatare quanto vasta e profonda sia la frattura fra chi legge professionalmente e professoralmente la realtà, e la realtà medesima. L’imbarbarimento del linguaggio e della temperie comunitaria, prodotte nei secoli bui dell’Inquisizione, sono gli stessi che oggi attraversano le nostre giornate. Le turbe di cittadini-caricatura che, dalla proiezione inselvatichita dei loro televisori, in milioni sono stati addestrati ad acclamare rituali di degradazione (fondati su anticipazioni concordemente trafugate e brani investigativi acefali e svolazzanti) fanno impallidire le poche centinaia di cenciosi e i pochi maggiorenti che allora inghirlandavano roghi e ghigliottine.
Tuttavia, fra quegli osservatori e studiosi, nessuna conseguenza si è mai tratta da questi paralleli. Allora, così, a che serve lo spaesamento? Temo solo a nutrire un’incurabile schizofrenia, o a mascherare un’impacciata (forse) mala fede.
Come dicevo, oggi, però, abbiamo fatto un ulteriore passo avanti. Quella schizofrenia o quella mala fede largheggiano beate nel corpo di una sentenza, resa “in nome del Popolo italiano”. Solo che la sentenza Ruby, pur intrisa dei peggiori stilemi di quell’antica stagione mefitica, ricca com’è di bardature sessuofobiche, nitriti sagrestani, occhiute deduzioni del detto dal non detto, del noto dall’ignoto, del peccato dalla virtù, in quegli ambiti così attenti allo studio e alla riflessione, anzichè suscitare spaesamento, pare susciti compiacimento. Che, da quelle altezze, per li rami (secondo movenze e schieramenti, per la verità, ormai ripetuti da vent’anni) giunge fino alle ridette turbe.
Sicuri che gli italiani di Checco Zalone, i “cozzaloni”, i tamarri, i paria, nel longanime giudizio di quel ceto intellettuale, con quell’affluenza inusitata, abbiano solo voluto vedere un film?