Dal 14 al 20 ottobre è stata celebrata la settimana della lingua italiana nel mondo. A tal proposito si possono fare alcune riflessioni. Ci sono due aspetti che in questo periodo hanno colto la mia attenzione. Il primo è quello, diffusamente riconosciuto, del rapporto tra lingua e identità. Il secondo quello tra lingua e linguaggi.
Cosa voglio dire? Innanzitutto, la lingua è considerata diffusamente uno strumento di coesione nazionale: il francese ha fatto la Francia, come pure l’Italiano ha fatto l’Italia. Le hanno fatte perché insegnate a scuola, perché utilizzate ampiamente sui media nazionali: in primo luogo televisione e stampa. L’Italia, in questo senso, è un caso esemplare di diffusione della lingua nazionale tramite la tv. Non solo, ma i mass media nazionali hanno costruito la percezione di uno spazio geografico condiviso. I fatti “italiani” venivano e vengono tuttora discussi da Torino a Siracusa, da Bolzano a Lecce. Questo perché è la stampa che costruisce la cosiddetta agenda setting di dimensione nazionale. Se lingua, territorio e media costruiscono il senso dell’appartenenza degli italiani all’Italia, in particolar modo nel post Seconda Guerra mondiale, oggi le cose non stanno più così. Tutte e tre le variabili sono messe in discussione. La lingua non identifica più immediatamente un’appartenenza: basta vedere i ragazzini con tratti non proprio italici parlare un italiano perfetto se non dialetti locali, oppure al contrario giovani italiani sempre più plurilinguisti. Come può la lingua identificarli chiaramente?
Su questo punto mi si permetta di raccontare un’esperienza personale. Un giorno vennero tre operai a fare dei lavori in casa che parlavano il dialetto veronese stretto. Io che non lo comprendo del tutto avevo bisogno della traduzione da parte di uno di loro che meglio parlava italiano. Quando questi se ne andò gli altri due si misero a parlare in un’altra lingua. A quel punto chiesi di dove erano: una domanda che diventa strana perché irrigidisce un’appartenenza e richiede, come accadde, l’interpretazione dell’interpellato. Cioè è lui a decidere da dove viene. Infatti, mi rispose che veniva da un paese vicino Verona, ma aggiunse che stavano parlando rumeno. A quel punto, io da buon toscano che non parla alcun dialetto, mi sentivo il più estraneo: rappresentavo la dimensione nazionale contrapposta a quella locale-transnazionale degli operai. Insomma, la questione diveniva complessa ma mi fece molto riflettere.
Anche questo caso pone la questione di una difficile sovrapposizione tra lingua e identità.
Crediamo, quindi, che non si possa più avere lo stesso atteggiamento tenuto in epoca moderna, cioè nella costruzione, come dicevamo, di identità nazionali anche e soprattutto attraverso la lingua. Oggi la lingua esprime un’appartenenza mescolata, rappresentata dalla proliferazione del plurilinguismo. E’ per questo che il rapporto classico tra lingua e cultura (se intesa come nazionale) entra in crisi. Essa si deve confrontare con culture in movimento, con simboli che si spostano da un luogo all’altro del pianeta, spazi di copresenza linguistica sparsi nel mondo e altre forme espressive. E’ allora in questo senso che la lingua italiana, di cui mi preme sottolineare il desiderio della sua conservazione ma non la rigidità ai mutamenti culturali, diventa, nelle parole di eminenti linguisti italiani, la seconda lingua più visibile nel mondo. Non la più parlata, non la più diffusa, ma quella che con grande impatto riempie gli occhi: negli slogan, nelle insegne, nei menu, nei marchi, nei prodotti, nelle opere d’arte, nel cosiddetto processo di italian sounding (parole che nella lingua italiana non esistono ma ad essa si richiamano come “frappuccino”, “cafriccio”, “i soffatelli”, ecc…). Per quanto riguarda le variabili territorio e media è facile comprendere quanto la deteritorializzazione e internet, dove prevale l’inglese o il plurilinguismo, stiano modificando il contesto culturale di riferimento.
Si arriva così al secondo punto. Possiamo considerare altre forme di linguaggio, oltre la lingua strictu senso, nella costruzione dell’appartenenza culturale in particolar modo italica? Io credo di sì. Basta pensare alla comunicazione non verbale, che per esempio richiama una forte appartenenza italica: le punta delle dita giunte che si allontano e si avvicinano dal corpo di colui che le muove sono straordinariamente significative. E poi non sono forse linguaggi: l’arte, il design, la cucina, l’architettura, la moda? Non sono questi in grado di ricreare un modo di essere, uno stile di vita che noi identifichiamo come italico perché attinente a certi valori ma riproducibile in tutto il mondo?
Lingua, linguaggi, cultura, identità sono parole che stanno modificando incredibilmente i loro significati. Tuttavia, è bene essere chiari, questo non è solo tema per studiosi ma riguarda ognuno di noi come cittadini, esseri umani, persone consapevoli che nel mondo cercano un senso e un significato.