L’amnistia e l’indulto prossimi venturi, di cui da qualche giorno si discute, costituiranno, una volta varati, adeguata cornice per l’opacità culturale e politica della nostra coscienza pubblica. Saranno la negazione impudente dello spergiuro colto in fallo, la fuga dopo il delitto, la fossa comune dopo la strage. E nella sagra farisea che si è avviata, ciascuno degli argomenti esposti a sostegno, anziché favorire il rimedio, aggrava il male. Questo accade perchè molti di coloro che hanno preso la parola su questo tema custodiscono un interesse contrario a quello formalmente espresso.
Si dice, dietro l’accorato intervento del Presidente Napolitano, che le condizioni delle carceri italiane sono piagate dal loro sovraffollamento. Senza distinguere. Fra chi è recluso per un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, e chi è invece recluso per una sentenza definitiva. Se il problema fosse realmente quello del sovraffollamento carcerario, dal momento che circa la metà del totale si compone di detenuti formalmente “provvisori”, forse, nel dibattere, sarebbe stato opportuno partire da questi. E chiedersi perché sono così numerosi; e se, dato che non pochi fra essi verranno statisticamente assolti, non sia il caso di agire in questa direzione. Anziché aprire le porte a quanti sono stati riconosciuti colpevoli con accertamento irrevocabile.
Eh già: perché non se ne parla? Perché, se la questione venisse posta in questi termini, inevitabilmente se ne porrebbe un’altra: l’uso e l’abuso della custodia cautelare. E da questa ne sorgerebbe, alternativamente, una ulteriore: o sarebbero le regole ad essere squilibrate e inadeguate, generando una sovrappopolazione carceraria; e allora andrebbero modificate. O, se invece le regole andassero bene, sarebbe allora il potere interpretativo del giudice a rivelarsi fuori misura. Ma se ammettessimo la possibilità di interpretazioni arbitrarie su larga scala (stiamo parlando di soprannumero carcerario), ne avremmo l’ennesima gemmazione: la carenza del sistema dei controlli professionali imperniato sul Consiglio Superiore della Magistratura. Sarebbe allora un tale sistema che andrebbe sottoposto a riforma.
A quanto pare, però, si preferisce che l’amnistia e l’indulto siano la mascherata dietro la quale dolosamente celare la nudità del re. In questo caso il re sarebbe il processo penale, i suoi soggetti primari, cioè giudici e pubblici ministeri e il loro ordinamento, che si chiama Ordinamento Giudiziario.
E sia. Accantoniamo il problema della custodia cautelare. Occupiamoci solo dei “definitivi”. I provvedimenti di clemenza, si dice, sarebbero giustificati dalla durezza delle pene inflitte, durezza insostenibile se considerata in combinazione con la logistica primitiva di molti istituti di pena. Giacchè lo stato delle celle è com’è da decenni, e il numero di anni previsto per i vari delitti pure, allora le nostre pene risulterebbero strutturalmente e non casualmente inique.
E tornerebbero le questioni a cascata. Visto che si discetta di iniquità, di sovraffollamento, perché non modificare strutturalmente le pene, riducendone la gravità: cioè il numero di anni che possono essere inflitti? Ma così diamo un segnale di mollezza criminogena, si obietta. Non è vero. O non è vero in termini così apodittici. Autori di stragi e pluriomicidi sono in libertà perché le loro dichiarazioni si sono ritenute integrare un interesse pubblico meritevole di tutela e di incoraggiamento. Non si vede perché un abbassamento generalizzato delle pene non possa costituire un interesse pubblico altrettanto meritevole, visto che la popolazione carceraria è un nostro ricorrente rovello. Certo se il potere di giudicare s’intende in via privilegiata come potere di condanna, pene più miti significherebbero potere più debole. Ma se vogliamo pene muscolose, perché allora porre la questione di quanto picchiano duro, dei lividi e delle ferite che provocano? La fiera dei tartufi.
Ma andiamo oltre. E guadagnamo un altro punto di osservazione, dal quale contemplare la feroce nudità che non si vuole vedere: si tratta della prospettiva peggiore. Così, diamo per ammesso che amnistia e indulto siano la sola soluzione praticabile. Ma non va bene neanche così. Troppo facile! Praticabile sì, ma non per tutti: non sia mai che, sia pure in un contesto deviato, valga un barlume di uguaglianza. Ad alcuni sì, ad altri no!
E’ la prospettiva peggiore, perché questo distinguere fra naufraghi tradisce, e pure in modo abbastanza grossolano, l’immonda verità fondativa della c.d. II Repubblica. Ed è la verità di un orribile strumento: la macchina giudiziaria in iattante movimento sul campo parlamentare e di governo; potente e feroce a beneficio di fazioni schierate sotto i riflettori, quanto è incurante e neghittosa verso una folla divenuta anonima a sipario chiuso.
La questione delle carceri è un affioramento laterale di questa verità che, ancora una volta, si vuole nascondere. Ma se vogliamo ricreare uno spazio pubblico in cui la paura e l’incertezza non siano la fucina della peggiore classe dirigente, fatta di avventurieri e facce di stagno, pronte ad ogni azzardo perchè non hanno mai niente da perdere; se vogliamo arrestare una spirale di oppressione geopolitica che in una simile, inadeguata, classe dirigente trova il suo più asservito e interessato manutengolo, con questa verità, e non solo con le sue ombre, dovremo prima possibile fare i conti.