“Tutto ciò che è profondo ama la maschera”.
Nietzsche, com’è noto, si riferiva allo “spirito profondo”, che deve nascondersi se vuole preservare il frutto della sua difficile e lunga interpretazione della realtà. Cioè la verità. Solo per ingenuità o malafede si potrebbe pensare di offrire senza mediazioni la verità. Dunque maschera a protezione della verità. Ma maschera è anche quella che intorno ad uno “spirito profondo” viene costruita dalle interpretazioni false e superficiali. Dunque maschera anche a detrimento della verità.
Consideriamo le ultime vicende dalla Val di Susa. Il Procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, ormai da mesi afferma che lì si sta addensando una polveriera, l’intero antagonismo europeo si starebbe coagulando intorno al c.d. movimento “No Tav”, con il rischio, ogni ora sempre maggiore, che ci scappi il morto. Pochi giorni fa, un imprenditore, Ferdinando Lazzaro, dopo aver denunciato, ospite di un talk show, la condizione di assoggettamento e di intimidazione in cui versano le persone a vario titolo impegnate nell’esecuzione del tunnel, torna a casa e trova un suo container in preda alle fiamme. Gli operai si recano nei cantieri sotto la scorta della polizia. Nelle ultime settimane, quasi venti attentati incendiari. Picchetti armati, posti di blocco paramilitari sulle strade. Minacce precise nel domicilio e nella persona. Insomma, una presenza criminale massiccia e organizzata.
L’opinione dissenziente rispetto al progetto Alta Velocità, s’intende, è legittima, ed è stata negli anni legittimamente manifestata dagli enti locali e dalla gran parte della popolazione interessata. Tuttavia, ma man mano che si è infittita la protesta, man mano che l’antagonismo è cresciuto, il dissenso civile, proprio perché civile, è stato progressivamente scalzato dal teppismo diffuso prima, dall’organizzazione criminale poi. Così, grosso modo, stanno le cose oggi.
Tutto chiaro. Dov’è la maschera allora? In verità ce n’è più d’una.
Un paio le hanno indossate il Professor Gianni Vattimo e lo scrittore Erri De Luca. Riproponendo certi simulacri di pensiero, nella lubrìca certezza della loro irresponsabilità intellettuale e morale: “Non considero le azioni dei No-Tav come azioni terroristiche”, ha detto il primo; “in Val di Susa le parole non bastano”, ha aggiunto il secondo. Se la storia repubblicana non avesse avuto i suoi manifesti, accademicamente ed intellettualmente sottoscritti, ad inneggiare, per esempio, all’omicidio del Commissario Calabresi, uno si potrebbe anche stupire. Ma ce li ha avuti: quindi nessuno stupore. Caso mai preoccupazione. Si tratta di maschere del secondo tipo, di quelle che, costruite con sciatteria intorno alla verità, le nuocciono e la mortificano.
Ora, un’altra dello stesso tipo la costruiscono, magari inavvertitamente, quanti rilevano, specialmente negli atti intimidatori e di ritorsione, caratteristiche dell’agire mafioso. La mafia ha moltissimi demeriti, compreso quello di essere esportabile nel metodo e nello spazio, e riproducibile nel tempo. Nondimeno, in questo caso, la temperie antagonistico-sovversiva non ha bisogno di importare nulla. Basta guardare in casa: e gli attentati, le minacce e le ritorsioni sono sempre stati il corredo teorico ed operativo di ogni “compagno che sbaglia”. A cominciare dalle istruzioni impartite da Pietro Secchia, capo dell’anima “rivoluzionaria” del P.C.I. “tradita” da Togliatti e poi da Berlinguer, nel suo noto opuscolo “La guerriglia in Italia”, edito da Feltrinelli nel 1969.
Il fatto che questi nuovi criminali si presentino in allure cosmopolita e affermino di combattere contro la diffusione tentacolare e multinazionale del capitale, oltre e a prescindere da tradizionali identità territoriali e nazionali (la “rete rizomatica”, secondo il gusto barocco di Negri&Hard), anziché contro i singoli padroni nazionali, cambia poco. Sono violenti e minacciosi e agiscono contro la libertà e l’incolumità altrui. Come sempre.
Bene, si potrebbe replicare: la similitudine No-Tav Mafia si giustifica pur sempre come analogia fra violenti. Perché allora parlare di superficialità nell’accostamento? Nietzsche risponderebbe che uno “spirito profondo” odia le analogie. Ma non complichiamo le cose.
Diciamo semplicemente che l’analogia non andrebbe posta dal lato delle “azioni”, ma dal lato delle “interpretazioni”. Non dovrebbe preoccupare l’ovvia similitudine fra un incendio e un altro, paragone che non fa male a nessuno e lascia che “buoni” e “cattivi” siano sempre gli stessi. Ma quella fra chi “legge” la presenza dell’Alta Velocità come “espressione” del “sistema” e chi “legge” come “espressione del “sistema” la presenza della mafia. Vattimo e De Luca, fra gli altri, sostengono cioè un antagonismo visionario e ansimante, che presto trasforma un uomo in un simbolo di un “sistema”, in bersaglio da abbattere, in modo non dissimile da quanti (loro non esclusi) hanno negli anni sostenuto un’interpretazione dell’Italia repubblicana in cui a lungo si è coltivata l’attesa di una “liberazione” da un “sistema mafioso”, simboleggiato da alcune note personalità.
Vendicare un “tradimento” di chi si è “venduta” la vittoria dei migliori; punire chi, con ogni sotterfugio e macchinazione, quella vittoria aveva invece impedito, sono due modi di dare spazio alla stessa “visione”. Ma cogliere le meno ovvie simiglianze fra chi legge il “vero significato” dell’Alta Velocità, e per questo la combatte, e chi “legge” il “vero significato” della mafia, e per questo la combatte, cogliere l’analogo gusto per l’astrazione torpida, l’analoga presunzione interpretativa, l’analoga saccenza parastorica, farebbe cadere troppe maschere. Facendoci bruscamente precipitare nella profonda verità.
Allora sarà meglio lasciare le cose come stanno, sarà meglio lasciare tutti, professori intellettuali procuratori mafiosi e antagonisti dove stanno. Meglio la superficie, che si va sul sicuro. Non è vero?