L’8 settembre 1943 fu un solo giorno. Di 70 anni fa. Si è scritto tanto, tantissimo su quel giorno. Come se quelli che seguirono contassero meno. Ed è allora per questo, per ricordare tutto il mese di settembre di sette decadi fa, che ci siamo sottratti all’angusto senso della ricorrenza del singolo giorno. Per questo, la nostra rubrica arriva un po’ dopo. Di quell’8 settembre, ne hanno scritto la storiografia, parlando di tante cose. Ne hanno narrato, forse con maggiore successo, i libri di Cesare Pavese, Curzio Malaparte, Beppe Fenoglio, Alberto Moravia, Mario Tubino. Spiegando le tante contraddizioni di un verità molto complessa. Nella cronaca, l’8 settembre fu il giorno di un generale, Badoglio, che annunciava alla radio la firma dell’armistizio di Cassibile, lo sfilamento definitivo dall’avventura nazi-fascista, il passaggio al campo anglo-americano. Ma i giorni successivi furono anche l’ennessima fuga della monarchia monarchia dei Savoia dalle proprie responsabilità. L’abbandono di Roma, la dolorosa sublimazione della viltà mostrata dalla casa regnante durante il ventennio fascista. Uno stato che, nelle sue istituzioni militari e civili, andò, un poco alla volta, in decomposizione. Un’intero paese allo sbando.
L’8 settembre come morte della patria è stata una formula di successo. Ma è stata spiegata male (Ernesto Galli Della Loggia, La morte della Patria, Laterza, 2003). E male interpretata. Schiacciata sul valore simbolico del disorientamento di cose, persone e valori. Il terremoto di un solo giorno di storia italiana. Certo, l’identità nazionale sembrò frantumarsi in tre aree nuovamente distinte: il sud liberato, l’Italia centrale, e il nord, oltre la linea gotica, sotto il persistente dominio dei nazisiti e del governo fantoccio della repubblica di Salò. Dalle ceneri del disastro fisico, politico e morale della seconda guerra mondiale sarebbero poi nate identità distinte. Le chiese e le case del popolo. La Democrazia cristiana e il partito comunista. Dio e Marx. Dio e Stalin, ahimé. Nazioni nella nazione. Parola per decenni divenuta impronunciabile. Eppure, il fronte della sinistra, detto popolare, era fatto di partiti, comunisti e socialisti, che si dicevano italiani. Dettaglio sul quale non si è mai riflettutto abbastanza. Nè lo han fatto i fondatori del partito democratico (italiano?) di oggi….
I giorni dopo l’8 settembre aprirono pagine piene di dolore. Spinsero il Paese in guerra civile. Tra chi scelse la democrazia e chi privilegiò l’onore di difendere la parola e le alleanze del fascismo. Molti rimasero anche in attesa. In una zona grigia fatta di rifugio nell’universo familiare e nei legami tradizionali. Molte scelte furono partigiane. Cioè per una parte. Scelte ponderate, ideologiche, istintive, molto spesso anche casuali. Tanti italiani compirono la scelta maldestra. Quella di difendere Salò, creazione di uno stanco Mussolini, troppo sottomesso ai nazisiti. Solo il passare degli anni avrebbe loro riconosciuto la dignità di un contribuito – comunque sbagliato – alla storia del Paese. Nell’esperienza sanguinosa della guerra civile tutti contribuirono a fondare, un po’ alla volta, un’altra Italia. Nei giorni dopo l’8 settembre, non fu la patria a morire. Ma piuttosto una precisa idea di patria. D’impronta tardottocentesca e risorgimentale. Presto imbastarditasi nell’ipoteca novecentesca del nazionalismo fascista. In quei giorni la libertà e l’avvio di una lunga marcia verso la democrazia non furono solo concessione del nuovo alleato anglo-americano. I giorni dopo l’8 settembre furono tante cose. Anzitutto, è bene ricordarlo, ci fu un aiuto africano. Prezioso. 6000 caduti d’origine senegalese, tunisina, marocchina e algerina nei giorni della battaglia di Monte Cassino (autunno ’43). C’è un cimitero a Venafro, in provincia di Isernia, che ne ricorda il contributo. Che non può essere dunque riassunto nelle violenze sessuali di cui molti marocchini furono comunque responsabili.
Tanti militari italiani – circa diecimimila – furono massacrati a Cefalonia. Altri italiani si immolarono, assieme ai civili, a Porta San Paolo, per la difesa di Roma capitale.
Tra il 23-27 settembre, un altro sud, quello d’Italia, accese la miccia della resistenza popolare all’occupazione nazista. Giornate di sole e di lotte del popolo, sangue e luce acciecante di un golfo mozzafiato. La gente di Napoli fu la prima a ribellarsi tra le grandi città europee. Indicando la via di una liberazione che sarebbe stata ancora più lunga. E Ancora più popolata di dolore, se percorsa con la sola forza miliare delle truppe alleate.
Fu dalla capitale di un meridione piegato dai bombardamenti che si cominciò a (ri)fare l’Italia. Con una partecipazione di popolo che mai c’era stata. Un’Italia diversa e, certo, ancora piena di problemi. Ma meglio di quella di prima.