Il 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial di Washington, Martin Luther King pronuncia il celebre I have a Dream. E’ l’ultimo degli oratori a parlare ai duecentocinquantamila, tra bianchi e neri, che hanno marciato al mattino al canto di We shall overcome, some day. Ai manifestanti che rivendicano la fine del razzismo in tutti gli stati della Federazione, il pastore battista affida parole profetiche di ispirazione biblica: “Anche se oggi dobbiamo ancora affrontare difficoltà e dovremo affrontarle anche in futuro, ho ancora un sogno… Sogno che sulle rosse colline della Georgia i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi proprietari di schiavi possano sedere insieme al tavolo della fratellanza… Sogno che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni collina e ogni montagna si abbasserà, … la gloria del Signore verrà rivelata e tutti gli uomini la vedranno insieme”. Avrebbe scritto Arthur M. Schlesinger Jr. nella biografia di John Kennedy, A Thousand Days, che la gente si dondolava a mani giunte, urlando estatica “Sogna ancora”. King parla nel pomeriggio: si sfolla al tramonto, riprendendo il canto battista di pace e speranza.
Quella grande marcia pacifica è stata voluta dall’insieme del movimento per i diritti civili e gestita dalle sue diverse organizzazioni, per evitare che il malessere dei ghetti urbani e della minoranza nera degli stati del Sud sfoci in violenza di strada, e fornire un efficace segnale di sostegno alla legislazione integrazionista che al Congresso i due Kennedy, il presidente e il ministro della giustizia, portano avanti con determinazione. King sa rubare la scena a leader più bravi e preparati perché possiede carisma e una retorica ben allenata dai sermoni della domenica. La giornata, a conti fatti, non aiuta più di tanto a far lievitare il numero dei consensi parlamentari ai provvedimenti che i Kennedy stanno concordando con il movimento. Ha però almeno tre risultati: spunta gli argomenti dei benpensanti che attendono il prevalere nel movimento della corrente radicale, convince i riluttanti tra i gruppi che convenga adottare come solo metodo di lotta quello non violento, impone King come riferimento autorevole alla sin troppo variegata coalizione per i diritti civili.
Furono tre elementi che, sommati alla presenza alla Casa Bianca di un presidente bianco convinto sostenitore della causa dell’integrazione, avrebbero portato risultati impensabili prima di John Kennedy. L’Alabama del caso Rosa Parks, alla metà degli anni ’50, non era cambiato molto se, nell’aprile 1963, la città di Birmingham si era resa protagonista di violenza inaudita (anche istituzionale) contro la pacifica protesta nera. Ma quello stato, come tutti gli ex confederati, avrebbe dovuto presto accettare e praticare la legislazione sui diritti civili approvata sotto il presidente Johnson. Iniziava mezzo secolo fa il cammino di legittimazione sociale e culturale delle minoranze, che avrebbe portato ai nostri giorni alla Casa Bianca il primo presidente colorato.
Come scrisse Robert Kennedy, nel libro pubblicato per la campagna elettorale che gli sarebbe costata la vita, all’epoca del “sogno” di King al Memorial, i neonati neri avevano una probabilità doppia dei bianchi di morire nel primo anno di vita e sette volte più della media di essere ritardati mentali. Da ragazzi, solo tre su dieci avrebbero preso il diploma, guadagnandosi un titolo di studio in scuole di basso livello. Bob osservava che la loro istruzione effettiva sarebbe stata persino inferiore al valore nominale del diploma conquistato. I massimi protagonisti di quel giorno di cinquant’anni fa, i Kennedy e King, sarebbero stati assassinati, ma il “sogno” sarebbe andato avanti.
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