Agibilità politica. È l’ultima formula che blocca la politica italiana. E il dibattito sulle cose da fare un Paese in ginocchio. Non c’è da stupirsi se, ancora una volta, le istituzioni repubblicane rimangano prigioniere del destino di un uomo. Che rimane e rimarrà il leader indiscusso del centro-destra italiano. Per un terzo o più degli italiani continuerà ad essere cosi. Per la giustizia italiana, dopo l’ultimo grado di giudizio, è invece un condannato. Un pregiudicato. Avrà mille difetti il nostro sistema giudiziario. Mille vuoti di legalità. Mille ingiustizie. Ma il principio per cui ogni cittadino è innocente fino al terzo grado di giudizio vale per tutti. Posssiamo dirlo ora, perchè lo dice la nostra giustizia. La giustizia di un Paese che crediamo e vogliamo ancora credere democratico. Ancora fondato sullo stato di diritto. Ed allora: Silvio Berlusconi è colpevole. Di aver frodato il fisco. È dunque ineleggibile e dovrebbero essere definiti i termini dell’interdizione dai pubblici uffici. Dovrebbe decadere da senatore.
In uno Stato di diritto, se ancora se ne crede all’esistenza, le sentenze definitive vengono rispettate. O si può tentare anche la strada della Corte europea dei diritti dell’uomo. Se invece si crede nella persecuzione resta la strada scelta da Bettino Craxi. L’abbandono del Paese. Una via più nobile e morale delle mille scorciatoie e pressioni che stanno architettando i vassalli di Silvio Berlusconi. Quello di Craxi fu un modo disperato ma tremendamente politico di denunciare l’ingiustizia. Ma la fuga è ipotesi agli antipodi della presunta richiesta di grazia, scelta che presume il ravvedimento del condannato e il “riconoscimento” della sentenza. E del lavoro dei magistrati. Altrimenti si sconti la condanna e con essa tutti gli effetti amministrativi della stessa. Ma certo, la nobiltà di un gesto volontario di dimissioni dalla carica di senatore sarebbe decisione troppo normale e convenzionale per chi ha sempre avuto poca dimestichezza con le regole, le leggi e le consuetudini della repubblica.
Purtroppo mister B e il suo seguito di falchi hanno ormai deciso per l’arma più disperata. Quella del ricatto. O il partito democratico lavora con il Presidente della Repubblica per garantire a Berlusconi la possibilità di guidare il partito del centro-destra – magari nell’umiliazione di arresti domiciliari ammorbiditi e da privilegiato– o salta il governo Letta. È il compimento della parabola eversiva di quella forza che ha cercato di imporsi per anni come liberale e moderata. La sua sublimazione. Che si arrivasse al ricatto estremo era piuttosto prevedibile. Il rischio che, prima o poi, una condanna fosse prounciata era assai evidente. E dipendeva da un semplice calcolo delle probabilità rispetto al numero già di per sè imbarazzante dei processi in corso. Come altrettanto probabile era che di nuovo, la tanta invocata stabilità di governo fosse stata riposta nelle mani sbagliate. Nella mani inaffidabili di un partito personale che, fisologicamente, non riesce a separare i destini di un leader ormai nell’autunno della sua esistenza umana e politica dalla più nobile esigenza di dare senso, forma e sostanza ad una forza democratica di centro-destra in Italia.
Che la dialettica politica muovesse ormai verso l’annuncio del nuovo ricatto doveva essere chiaro a molti. In primis, al presidente Giorgio Napolitano, il vero artefice del governo delle larghe intese. Al partito democratico occorrerebbe ora l’ultimo possibile scatto d’orgoglio. Osare o perire. Magari scomporsi e reinventarsi. Invece di alimentare fantasie e scenari da repubblica delle banane occorrerebbe una nuova proposta politica. Da fondare sulla fine di questa maggioranza bastarda e innaturale. Una coalizione anomala che non ha neanche un centesimo delle ragioni e dell’ispirazione etica e politica della soldarietà nazionali e dei governi del compromesso storico della cosidetta prima repubblica. Che il nostro B faccia pure e, in un gesto estremo, dia il minacciato ben servito al governo Letta. Che il Presidente Napolitano ne prenda doverosamente atto e si accomodi, finalmente, in Senato. Che le forze democratiche parlino al Paese. Senza nessun ricorso adoloscenziale allo streaming. Ma dicendo chiaramente che un’altra maggioranza è possibile. Ripartendo dal nuovo inquilino del colle più alto, il quirinale. Che si dia dunque un’altra chance a Stefano Rodotà, a Romano Prodi, o ad Emma Bonino. Al contempo, l’ultima possibilità di redimersi a quella carica dei centouno democratici che affossarono l’ex presidente del consiglio, fondatore del Partito democratico ed ex presidente della Commissione Europea. Basta con questa retorica del caos. Accettiamo l’instabilità come dato antropologico della vita politica italiana. Ma pensiamo ad una nuova opportunità. L’opportunità di fare poche piccole cose. Nuove. Eppure rivoluzionarie. Una legge elettorale degna di questo nome, proveddimenti contro il conflitto di interesse a tutti i livelli, contro le doppie e triple cariche negli uffici pubblici, la fine del finanziamento pubblico ai partiti. Una legge sulla disoccupazione giovanile e l’adozione di qualche misura di inserimento sociale che ci avvicini agli altri Paesi europei. Che la palla, dunque, torni presto al Parlamento, l’istituzione più umiliata a mortificata da questo ventennio che sembra non finire mai. Chissa che questa volta, dal caos, non venga fuori qualcosa di meglio del balbuziente governo Letta. Riproviamoci. Nel caos.