La situazione in Egitto è in movimento. È presto per fare un bilancio, ma si possono trarre alcune prime lezioni.
La prima è che non tutte le vittime delle repressioni sono uguali. Quali reazioni avremmo avuto nel mondo, se i massacri fossero avvenuti a Pechino o a Mosca? O a Teheran? La differenza è che qui, le vittime, non sono democratiche ma islamiste.
Questo ci porta alla seconda lezione (non poi così nuova): la democrazia è un concetto malleabile. Lo si può attagliare ai generali golpisti, e negare a chi vince le elezioni. Non dipende dalla democrazia in sé, ma da chi la maneggia.
Terza lezione: la democrazia come grimaldello geopolitico. C’era un tempo in cui la si voleva “esportare”, soprattutto nei paesi musulmani, per vincerne la riottosità. Cosa racconteranno ora i suoi tenaci missionari agli iraniani, ai cinesi, ai cubani o perfino ai russi, quando andranno a vantarne l’inconcussa superiorità? E come saranno accolti?
Quarta lezione: la laicità. La laicità imposta manu militari (o per via giudiziaria) seduce al tempo stesso progressisti e reazionari (questi ultimi a patto che la religione non sia la loro). Ma le esperienze del passato, da Bismarck a Enver Hoxa, hanno dimostrato che quel metodo non solo non funziona, ma produce spesso il risultato opposto.
Comunque, in Egitto, la laicità c’entra poco. Per mettere fuorilegge un partito di ispirazione religiosa, l’esercito si serve, tra gli altri, del rettore della più importante università religiosa sunnita al mondo, dei salafiti fondamentalisti, e dei soldi e gli incoraggiamenti dell’Arabia Saudita.
Quinta lezione: la Fratellanza musulmana. Ha fatto tutti gli errori possibili, e anche qualcuno in più. Fondata nel 1928, è stata usata da tutti come sgabello per il potere: dal re Faruq negli anni Trenta, da Nasser negli anni Cinquanta, da Sadat negli anni Settanta e da Mubarak negli anni Ottanta. Una volta servita allo scopo, è stata sempre messa fuorilegge. Non ha mai imparato ad essere un movimento anfibio: soffoca quando esce dalla clandestinità. Figurarsi quando prende il potere.
La lunghissima protesta in piazza contro il golpe non ha prodotto neppure mezzo sciopero. Neppure una serrata. Questo vuol dire che la Fratellanza manca di radici sociali profonde, il che facilita l’azione dell’esercito.
Sesta lezione: il terrorismo. Dopo il golpe, i Fratelli musulmani si sono fatti incastrare in un meccanismo tanto perfido quanto trasparente: quello che spinge una manciata di disperati a vendicarsi sia del danno (i massacri) che della beffa (l’illusione che la democrazia valesse anche per loro). Quando ripete che sta combattendo il terrorismo, El Sisi non fa altro che applicare quel che i francesi chiamano il “metodo Coué”: una profezia che si autorealizza a forza di essere ripetuta.
Se questo è lo scopo (che lo sia o no, è comunque uno degli esiti certi dell’operazione in corso), è stato ben congegnato. In Turchia, i militari golpisti preparavano attentati da attribuire agli islamisti. In Egitto, i militari golpisti spingono alcuni islamisti a preparare attentati. Lo scopo è lo stesso: mettere fuorilegge gli islamisti, o almeno quegli islamisti che approfittano della democrazia per vincere le elezioni, e che potrebbero, come successo in Turchia, revocare alcuni privilegi dei militari.
E i militari, in Egitto, ne hanno molti, di privilegi. Come molti eserciti di quell’area, incapaci di resistere a una vera guerra per più di una settimana, eccellono invece nel massacrare il loro popolo. E eccellono nell’intascare i “dividendi della pace”. Secondi gli specialisti, tra il 15 e il 40% dell’economia egiziana sarebbe nelle mani dei generali. La cifra è aleatoria perché la legge (confermata dai Fratelli musulmani) proibisce di saperlo. Segreto militare. Il “complesso militare-industriale” egiziano ha però questa originalità: non è per niente militare. Facendo lavorare giovanotti di leva pagati il soldo, produce televisori, padelle, fertilizzanti, acciaio, auto, pasta, olio, e gestisce un vasto impero immobiliare, stazioni di servizio e campi di calcio.
Settima lezione (più che altro un’ipotesi): che El Sisi abbia messo in conto che i sauditi, o magari i cinesi, o i russi, paghino meglio degli americani. L’idea, forse, non gli sarebbe venuta se Obama non fosse riuscito nella missione quasi impossibile di farsi esecrare da tutte le parti in conflitto. Pare che Hagel abbia telefonato venti volte a El Sisi per convincerlo a non sparare sui manifestanti, col risultato che è noto. Insomma, con gli Americani in stato confusionale, può darsi che l’Egitto abbia deciso di mettersi all’asta. E per quanto incredibile possa sembrare, è quasi sicuro che, per non farsi soppiantare completamente, Washington continui a pagare. In questo caso, il successo dei generali sarebbe completo.
Intanto, le chiese hanno cominciato a bruciare. Il metodo Coué funziona. El Sisi non ha bisogno che il 50% degli egiziani diventi terrorista; gliene bastano alcune decine. Ma se invece di alcune decine sono alcune centinaia, allora si mette in moto un meccanismo che i colleghi algerini e pakistani hanno già sperimentato. Fabbricare terroristi significa fabbricare terrorismo: si sa dove si comincia ma non dove si finisce. Non sono solo i copti che devono cominciare a preoccuparsi.