Alla fine di Ottobre del 2012, come qualcuno ricorderà, la giornalista Milena Gabanelli condusse una puntata di Report su Antonio Di Pietro, ponendo interrogativi sull’uso del finanziamento pubblico al partito “Italia dei Valori”; si faceva rilevare che un certo numero di beni immobili, 56, o 45 o 11, secondo il più mite Travaglio, intervenuto successivamente sulla faccenda, sembravano abbisognevoli di un qualche chiarimento, quanto al loro acquisto o ristrutturazione. Ad esemplificare la tesi, nel corso della trasmissione una giornalista esibiva un documento da cui sarebbero risultate opere di ristrutturazione di un appartamento sito in Via Merulana, a Roma, nell’anno 2002. Di Pietro replicava che in effetti la ristrutturazione aveva avuto luogo, ma che si trattava di una sede del partito e, perciò, le spese erano in linea con la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Subito dopo questa precisazione, il servizio continuava mostrando un atto di citazione in cui, al contrario, lo stesso Di Pietro sosteneva che, sin dal 2000, in quell’appartamento a Roma lui ci abitava.
Ma non è questo il punto. Il punto è che nessuna Procura della Repubblica, né allora né prima, sentendosi vincolata al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ritenne di svolgere un qualche accertamento, il cui esito, s’intende, avrebbe potuto anche essere liberatorio. Constano invece solo indagini per calunnia a carico di chi questi e altri dubbi aveva sollevato: peraltro, unico esito di una serie di denunce e querele reciproche; d’ufficio, niente. Non varrebbe replicare che la materia del finanziamento pubblico ai partiti non è di grande rilievo, perché, solo pochi giorni fa, un emendamento proposto dal PDL per eliminare la pena detentiva ha mobilitato giornali e partiti politici (Repubblica, il Fatto e il PD, segnatamente). In ogni caso, obbligo significa obbligo.
Un anno prima, Ottobre 2011, il Procuratore Generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, chiedeva la revisione dei processi c.d. Borsellino e Borsellino bis, conclusi con sentenza definitiva, in esito ai quali risultavano inflitti sette ergastoli, ad altrettante persone, e varie pene detentive temporanee, ad altre. Quelle persone sono state detenute senza titolo, in ragione di quell’accusa, per diciannove anni.
Nel maggio di quest’anno, il Tribunale di Palermo, nel processo sulla c.d. trattativa Stato-mafia, ha ammesso la citazione a testimoniare nei confronti del Presidente della Repubblica in carica, Giorgio Napolitano: nonostante sulle conversazioni avute con l’ex consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio (a proposito di presunti interventi penitenziari di favore, inseriti nel contesto della ridetta trattativa) fosse intervenuta prima la morte per infarto del dott. D’Ambrosio e poi la sentenza della Corte Costituzionale che, risolvendo il “Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato”, ordinava la distruzione delle intercettazioni illegalmente disposte a carico del Presidente della Repubblica. Ma il Tribunale ha obbligato ugualmente la più Alta carica dello Stato a rendere testimonianza, nonostante la sua sopravvenuta, patente, irrilevanza. Perché?
Si aggiunga che i due corollari, morte e Corte Costituzionale, comunque rendevano inopportuna questa citazione a testimoniare. Infatti, la morte di D’Ambrosio è stata connessa alla vicenda investigativa dallo stesso Napolitano: “E’ stato esposto a insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose”, oggetto di una “Campagna violenta e irresponsabile”. Inoltre, il Conflitto tra poteri dello Stato è un’ipotesi ammessa dal nostro ordinamento; il fatto che sia ammessa, tuttavia, non significa che sia fisiologica e che non segnali gravi e preoccupanti anomalie. Allora perché insistere, nonostante, anche in termini di opportunità, tutto sembrava suggerire una soluzione contraria e senza pregiudizio per il processo, stante la sopraggiunta liquefazione dell’oggetto della testimonianza?
Si consideri che in un caso analogo, un altro Tribunale, questa a volta a Milano, decise in modo opposto. Era il processo Cusani, quello della tangente Enimont e, nel marzo 1994, Carlo Sama, del Gruppo Ferruzzi, aveva accusato il P.C.I./PDS di aver ricevuto una tangente: la difesa chiese di citare a testimoniare Achille Occhetto e Massimo D’Alema, per un confronto. Il Tribunale, visto che si sarebbe votato di lì a poco per il Parlamento, ritenne “irrilevante” la testimonianza e rigettò la richiesta.
Tutto questo per dire che nei processi penali, specialmente quando sono coinvolte personalità pubbliche di rilievo, niente è neutro e tutto è sorretto da precise volontà.
Ora abbiamo Berlusconi condannato con sentenza definitiva. Abbiamo visto che l’obbligatorietà dell’azione penale può avere vigenza ed intensità variabili. Che l’accertamento giudiziario, anche se definitivo, può risultare clamorosamente fallace, e che l’importanza dei fatti trattati e delle persone coinvolte (anche in memoriam) non garantisce da errori radicali. Abbiamo anche visto che la discrezionalità è un elemento imprescindibile della vita di un processo e che i magistrati vogliono e non vogliono, come ognuno nella vita di ogni giorno, e che i “parametri oggettivi” (elementi del reato, elementi di prova) che dovrebbero guidare e limitare un tale “volere e non volere”, sono invece da questo a loro volta “letti e interpretati”, espansi o ridotti a seconda dei casi, e più spesso di quanto si ammetta.
Abbiamo visto e vediamo tutto questo. E ancora ci chiediamo perché una sentenza penale definitiva non sia considerata null’altro che un atto politico, perciò parziale, perciò priva di quel valore intrinseco e superiore che dovrebbe avere?