La sentenza sul caso Mediaset, letta in qualche minuto venerdì sera in un’aula di quello che i romani chiamano con qualche ragione “Palazzaccio”, suggerisce riflessioni sul sistema giudiziario italiano e sullo scenario presumibile che la nostra politica assumerà nelle prossime settimane.
La prima considerazione è che il senso del dovere e della dignità della giustizia hanno avuto la meglio sulla lentocrazia tribunalizia, male endemico del nostro sistema politico-sociale ed economico. L’impunità, garantita ai mascalzoni dalla lunghezza dei processi, stavolta è stata negata. Auspicabile che non sia accaduto per l’eccellenza dell’imputato di turno, ma per la consapevolezza finalmente acquisita della dignità di una funzione che i magistrati esercitano “in nome del popolo italiano”. Che l’assunzione di responsabilità sia coincisa con l’equo giudizio di Cassazione su Mediaset è altrettanto positivo. In attesa di disporre delle motivazioni della sentenza, sembra di dover riconoscere nella riduzione della pena complessiva già inflitta in appello, un atto che nega la presunta animosità della magistratura contro l’imputato, e smonta definitivamente il teorema di un corpo separato dello Stato che farebbe politica contro l’uno o l’altro partito.
Le prime reazioni Pdl, e soprattutto il messaggio televisivo del loro capo, lasciano intendere che in quegli ambienti si continui ad attribuire valenza politica a decisioni che, pur mutando di forma nell’esito, hanno, nei tre gradi di giudizio, sempre confermato la sostanza della frode fiscale di Mediaset contro lo Stato. Vista la moderazione della sentenza di Cassazione (Berlusconi non sconterà mai gli anni di carcere, e l’interdizione verrà ridotta con prossima determinazione della corte di appello) bisognerebbe smetterla con il ritornello delle “toghe rosse”: i giudici non possono essere dipinti con questo o quel colore per il fatto che condannino o meno Mediaset e l’imprenditore cui l’impresa fa capo. Il non più cavaliere potrebbe piuttosto prendersela con se stesso: ritenendo produttivo l’utilizzo a fini politici del suo impero di comunicazione mediatica, non ha mai voluto scindere le responsabilità di leader politico e di governo da quelle di industriale. Si è letto in molte occasioni, in tempi non sospetti, che la commistione tra affari e politica, il cosiddetto conflitto di interessi, avrebbe potuto ritorcersi contro colui che in quella commistione aveva edificato le sue fortune politiche ed economiche. Così fu con sentenza definitiva; si volti pagina.
Proprio perché la natura della sentenza non riguarda il citizen che fa politica, ma il magnate che, invece di dare buon esempio, froda il fisco scaricando più tasse sul poverocristo che lavora e non evade, non è lecito a nessuno, tantomeno al partito che sembra continuerà ad essere diretto dal condannato e interdetto, interpretare in chiave politica una sentenza costruita all’interno delle sole procedure processuali. Sarebbe ben misero il patrimonio di legalità e cultura politica di un partito tuttora al governo della nazione, se di fronte ad una sentenza per fatti aziendali e fiscali, scaricasse sul governo e quindi sul paese, la comprensibile frustrazione del momento. Al tempo stesso il Pd è chiamato a moderazione e comprensione per gli alleati di governo. I suoi militanti puri e duri si facciano spiegare da Napolitano cos’è la ragione di stato.
“La situazione è grave ma non seria”, commenterebbe Flaiano. Diventerebbe una situazione anche irresponsabile se, con il quadro economico e sociale che ci ritroviamo, il governo si frantumasse sulle vicende private di Mediaset. Nell’opinione internazionale la sentenza ci fa sicuramente guadagnare punti. Il comportamento irresponsabile dei partiti ci riporterebbe indietro.
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