L’ultima stoccata è venuta dall’ex ambasciatore statunitense a Roma David Thorne. Prima di lasciare l’Italia ha rilasciato una lunga intervista a “La Stampa”. Thorne, il nostro paese lo conosce bene: nel 1953 la sua famiglia si trasferisce a Roma, il padre Landon Thorne Jr., è incaricato dal President Dwight D. Eisenhower di amministrare il Piano Marshall in Italia. Cresce a Roma, impara l’italiano, viaggia in lungo e in largo per l’Italia. Fonda la “Adviser Investments”, una fra le più note società di investimento finanziario degli Stati Uniti specializzata nella gestione di fondi di investimento Vanguard e Fidelity e di fondi legati all’andamento dei principali indici azionari.
A un certo punto, parlando dei guai del nostro paese sono riassumibili in una sola parola: “Incertezza”. Gli investimenti stranieri dimezzati, il sistema produttivo al collasso si spiegano appunto con “incertezza… per fare investimenti bisogna avere certezze e l’Italia è diventato il paese dell’incertezza, prima di tutto nel sistema della giustizia, poi nella stipula dei contratti, negli adempimenti burocratici. Dovete assolutamente semplificare le procedure e accorciare i tempi per dare chiarezza e sicurezza a chi vuole produrre qui”.
Il nesso molto stretto tra il funzionamento del sistema giudiziario e il funzionamento del sistema economico, e in ultima istanza, del “sistema paese” viene individuato e messo in evidenza come meglio non si potrebbe. L’Italia è il Paese con il maggior numero di sentenze emesse dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo non ancora eseguite. Sono ben 2.569. Poi viene la Turchia con 1.780 e la Russia con poco più di mille. Nel 2012 l’Italia è stata condannata a versare a propri cittadini indennizzi per una cifra vicinissima ai 120 milioni di euro.
Il 2012 un caso isolato? No. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. In generale, tanto per inquadrare meglio la situazione dell’Italia, è bene sapere che il 7% delle cause sottoposte alla Corte di Strasburgo è a firma di italiani, i quali da soli ottengono circa il 18% delle sentenze di rimborsi. Ovviamente a farla da padrone sono le tempistiche dei processi penali, di quelli civili e della cause di fallimento delle aziende. Solo questi ultimi due filoni contano ben 800 fascicoli. Seppur in minoranza (e spesso dimenticate dall’opinione pubblica) le tempistiche per ottenere giustizia dopo un fallimento sono ancora oggi, dopo la riforma delle procedure, bibliche. Rendendo ancora più drammatica una situazione aggravata dalla crisi e dal numero crescente di fallimenti.
Più in generale, si può dire che la questione “giustizia” sia esplosa con la vicenda Tortora, quando nell’opinione pubblica ha cominciato a maturare la convinzione che la sua amministrazione, per usare le parole di Leonardo Sciascia, “è semplicemente pessima”: “Siamo entrati in una specie di fase pre-montesquieu perché i tre poteri che dovrebbero restare indipendenti si sono riunificati nella partitocrazia. I partiti fanno le leggi, le fanno eseguire, le fanno giudicar. Quando c’è questo, la democrazia non esiste più”. Quello che si rimproverava, e si rimprovera tuttora, è una vocazione alla Giustizia spettacolo, la violazione sistematica del segreto istruttorio; le manette facili, la lunghezza abnorme della carcerazione preventiva e della durata del processo.
Nel 1987 i radicali, assieme ai socialisti e ai liberali, raccolgono le firme per tre referendum sulla giustizia. Referendum che si concludono con una netta affermazione dei SI. Poi il Parlamento approva la cosiddetta legge Vassalli, che però va in senso contrario al voto popolare. Oggi i radicali ci riprovano, e raccolgono le firme su dodici referendum, sei dei quali riguardano specificatamente la giustizia. In estrema sintesi:
Per introdurre la responsabilità civile dei magistrati, perché, dicono i proponenti, non si ripetano più casi come quelli di Enzo Tortora.
Perché i magistrati fuori ruolo tornino alle loro funzioni originarie.
Contro l’abuso della custodia cautelare, e il carcere preventivo si applichi solo per reati gravi.
Per l’abolizione dell’ergastolo: la detenzione deve avere, come finalità la rieducazione, un principio in contraddizione con il carcere a vita.
Per la separazione delle carriere dei magistrati, perché il cittadino sia giudicato da un “giudice terzo”, obiettivo e imparziale.
Berlusconi ha promesso pubblicamente di sostenere i referendum, e in effetti molti dirigenti del PdL li hanno firmati e raccolgono le firme perché siano indetti. C’è ora chi sostiene che i referendum saranno un grimaldello che consentirà a Berlusconi di uscire dai suoi guai giudiziari.
A leggere i quesiti referendari non se ne trova uno che possa essere usato dal leader del PdL “pro domo sua”. Ad ogni modo, giova ricordare che Giovanni Falcone, accusato di tutto, in vita, ma di berlusconismo no, in tempi non sospetti, a Mario Pirani di “Repubblica” disse che “…un sistema accusatorio parte dal presupposto di un PM che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice, non essere come invece oggi è, una specie di paragiudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri…” (“Repubblica”, 3 ottobre 1991).
E ancora: “…Ora sul piano del concreto svolgersi dell’attività del PM, non può non riconoscersi che i confini fra obbligatorietà e discrezionalità sono assolutamente labili e, soprattutto, che la discrezionalità è, in una certa misura, un dato fisiologico e, quindi, ineliminabile nell’attività dl PM. Ed allora, se vogliamo realisticamente affrontare i problemi, evitando di rifugiarsi nel comodo ossequio formale dei principi, dobbiamo riconoscere che il vero problema è quello del controllo e della responsabilità del PM per l’esercizio delle sue funzioni… Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del PM finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività…” (intervento al convegno di Studi Giuridici di Senigallia, 15 marzo 1990). E comunque, da quando una causa giusta è tale o cessa di esserlo a seconda di chi vi aderisce? E non si finisce con l’attribuire a queste persone uno straordinario potere, dal momento che, a seconda che aderiscano o meno a una causa, questa diventa buona o cattiva?
Anni addietro, credendo di giocare in paradossi, in un racconto d’immaginazione Leonardo Sciascia ha fatto dire a un alto magistrato delle cose sul suo intendere la giustizia che finivano con l’essere, esattamente, una ideologia dell’ingiustizia dentro quella che confutava l’esistenza dell’errore giudiziario e affermava una giustizia come rappresentazione, celebrazione, apparato e apparenza. “Ma evidentemente”, rifletteva amaro Sciascia, “era più un presentimento che uno scherzo”.
Ma qual è la situazione? Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza; senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del “cuore umano”, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica.
Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come un potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe aver radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio.
Sappiamo, purtroppo, che non da questo sentimento e intendimento i più sono chiamati, vorremmo dire vocati, a scegliere la professione del giudicare. Tanti altri sono gli incentivi, e specialmente in un paese come il nostro. Ma il più pericoloso di tutti è il vagheggiare – e poi il praticare – il grande potere che la nostra società ha conferito al giudice come potere fine a se stesso o come potere finalizzato ad altro che non sia, caso per caso, quello della giustizia secondo legge, secondo lo spirito e la lettera della legge spirito – si vorrebbe – mai disgiunto dalla lettera.
L’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio.
“Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo”, osservava Sciascia, “la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”. E’ amaro trent’anni dopo dirci le stesse cose.