Arrivano in albergo con un pulmino Fiat affittato a Frosinone, tutti piuttosto consistenti nelle loro rotondità e tutti ricolmi di prodotti alimentari appena avuti in dono dai parenti ancora rimasti in Ciociaria.
Scendono in sette: la nonna, i due coniugi e i quattro figlioletti di età comprese tra i cinque e i sedici anni. Dalle loro buste spuntano Canascionetti di Supino, Salciccie di Patrica, Torroni di Alvito, Conciato di San Vitore e ancora Scamorze appassite, Caciocavalli e due o tre bottiglie della famosa Sambuca di Collepardo.
“Lo vu’ assaggià ‘u caciocavallo, giuvanò?”, domanda la signora Felicita al giovane receptionist dell’Hotel Modigliani, delizioso hotel a gestione familiare, situato tra via Veneto e via Sistina, a due passi dalla celebre piazza di Spagna.
Il viaggio in Italia è stato organizzato da Antonio, figlio di Felicita, cicciotto cinquantenne che fa il meccanico in una grande officina di Hartford. Erano anni che la cosa era in programma ma, vuoi per i soldi, vuoi per il poco tempo a disposizione, la faccenda finora non era mai andata in porto. Nel frattempo era dipartito il marito di Felicita, il signor Ernesto, decollato da Frosinone, in Ciociaria, ben sessanta anni prima, nel 1953, per fare fortuna in America e seguire l’esempio del fratello Riccardo, emigrato qualche anno prima.
Il giovane Ernesto a Frosinone faceva l’assistente barbiere, il cosiddetto ragazzo spazzola, e a Hartford seguitò appunto a fare l’assistente barbiere in Russ Street. Ci mise dodici anni ad aprire la propria bottega personale e, da allora, le cose andarono meglio. Il suo unico figlio, Antonio, non aveva voluto seguire le orme del padre e, alle forbici e al pettine, aveva preferito le chiavi inglesi e i cacciavite, iniziando a lavorare in un’officina d’auto. A casa si parlava rigorosamente con accento ciociario stretto e così, ancora oggi, la signora Felicita si rivolge al giovane receptionist romano.
“Maddemà so fatte ne lòtte i me so’ sgruppunate !”
“Prego, signora?”, risponde il ragazzo, ormai completamente spiazzato.
“No, non si preoccupi.”, dice il figlio Antonio, un po’ imbarazzato “Mamma dice che l’altro giorno all’aeroporto è scivolata davanti al taxi e si è fatta male alla schiena.
“Ah..”, bofonchia il brufoloso receptionist.
Ma l’agguerrita signora non molla e incalza con il suo accento desueto.
“A mieche de i uachemme pedanca nem me te chiù, apperciò uamme acchiappà n’asene, ‘mprò quète eh? “
“ What?”, risponde a bocca spalancata il giovanotto.
“Mamma dice che non ha più voglia di camminare e quindi che gli devi sempre trovare un buon asino.”
“Ma al centro di Roma non ci sono asini, signor Mazzardi!”, risponde il ragazzo.
“Mamma chiama asino il taxi. >>
“ Cirche ‘nu taxi, pizzellotte !”, aggiunge l’anziana donna.
“Pizzellotte ?”
“Ragazzo ! Pizzellotte vuol dire ragazzo.”, traduce bonariamente Antonio.
E così via per tutti e tre i giorni in cui la curiosa famiglia Mazzardi ha soggiornato nella capitale. La mattina Felicita teneva lezione di cucina alla cuoca dell’albergo, la simpatica signora Cristina che, ascoltando con umiltà e attenzione, aveva imparato prestissimo a cucinare degli ottimi Zaoiardi, biscotti dolci dalla forma cilindrica, che sono la versione ciociara dei più celebri Savoiardi creati dallo Chef del re Vittorio Amedeo II nel 1700.
La sera invece la lezione si spostava nel più conosciuto ristorante Il Ciociaro di via Barletta, a due passi dal Vaticano. Alla vista del Menu, la signora Felicita iniziò a gridare come un’ossessa, dopo aver letto le prime tre righe della voce antipasti.
<< Polpo affettato, moscardini fritti, salmone scozzese affumicato… Ma chella zoccul'e mammta, che ristorante ciociaro è chisto qua? T pozz fà sant. Mo’ t’ho da imparà cu’ le mani mia !>>, aveva tuonato prima di scattare in piedi e precipitarsi nelle grandi cucine a prendere di petto il malcapitato cuoco di turno.
Erano stati tre giorni felici. E, al momento della partenza, il ciccio Antonio non era del tutto convinto che sua madre si fosse davvero resa conto che l’Italia che avevano appena visitato non fosse più quella del 1953.
“Fusse che fusse la vorta bbona !”, disse Felicita, salendo sull’aereo.
“In che senso, mamma?”
“Nel senso che è mejo che te stai zitto, figlio mio. Che nun hai mai capito ‘na ceppa. Do you know ceppa, my sweet son?”, concluse sorridendo l’arzilla signora.