Prete di strada. Prete degli ultimi. Banalmente detto, prete dei poveri. Prete comunista. Prete delle puttane e degli omosessuali. Prete di quelli in transito, da un sesso all’altro. Con cui parlava ed a cui dava la comunione. Prete no global. Qualche volta sopra le righe. Prete degli immigrati. Fratelli, li chiamava. Prete dei drogati e degli zingari. Prete mal sopportato. Anarchico e anti-borghese. Anti-romano e anti-vaticano. Più semplicemente, prete come dovrebbero essere i preti.
Tanto è stato detto e scritto su don Andrea Gallo, nato a Genova il 18 luglio 1928 e morto lo scorso 22 maggio. Uomo che per decenni ha incarnato l’anima più progressista del mondo cattolico. Quella più aperta alle contaminazioni della vita e delle esperienze “degli altri”. Convinta della possibilità di rigenerare il senso del messaggio cristiano in un mondo secolarizzato. Naturale che Camera a Sud sentisse, forte, il desiderio di dedicargli il gusto commiato.
Don Gallo era il rifiuto dei dogmi come fuga della realtà. Ed immersione nella vita quotidiana di uomini e donne per cercare di comprenderla. E governarne i fenomeni. La morte di Don Gallo è arrivata nel tempo di Papa Francesco. Sarebbe il caso di dirlo, grazie a dio. Un tempo migliore per Santa Romana Chiesa. Piacevoli anni luce sembrano essere trascorsi dalla freddezza dottrinaria di Joseph Ratzinger. Dalle lotte di potere che hanno trasformato il Vaticano in una società per azioni. Tanto tempo sembra anche passato dalle contraddizioni del tanto celebrato Papa Wojtyla. Quello che sconfisse il comunismo, certo. Ma anche quello che, oggi beato, umiliò le donne più di una volta. Cosa che Don Gallo, umile prete di campo, non osò mai fare. Un prete dalla santità vera ed umana, che mai avrebbe chiesto alle donne vittime delle violenze sessuali nei Balcani di accogliere, comunque, un figlio di dio. Figlio mai voluto. E figlio di uno stupro. Dettaglio marginale per la comunità maschilista della gerarchia vaticana cui Don Gallo è sempre stato fieramente distante.
Insomma, Don Gallo non era un prete. Era: Il prete. Alla continua ricerca di verità, se mai ci fossero od esistessero, delle verità. L’importante era sfidare quelle presunte. Don Gallo fu anche l’accusa alle nuove crociate contro quel pezzo di lattice capace di evitare gravidanze indesiderate e prevenire malattie letali. Antidoto a morti per fame e di AIDS. Don Gallo fu anche le invettive indignate contro le verità più grossolanamente popolari. Del tipo “gli zingari non vogliono integrarsi”. “La droga va proibita”. La prostituzione pure. “L’immigrazione fermata”. O Regolata per ostacolarla.
Fu pensiero e azione. Genovese e mazziniano. Un teatro per gli zingari. Una casa per le puttane (che ci saranno sempre). Una per gli immigrati. Perchè l’umanità si è sempre spostata da un posto all’altro del mondo. Piccoli lavori, di inserimento e distrazione. Un’ipotesi per sperare. Ed una per alleviare le sofferenze. In una delle più cristiane e misericordiose pratiche di accoglienza che l’Italia potrà mai ricordare. Don Gallo, con laica lucidità e coraggio, ricorse persino – o almeno così si narra- alla dose che alleggerisce il dolore del tossico in crisi di astinenza. Non cedimento al capriccio ma soluzione pratica e sperimentale a sofferenze non contenibili. E a decenni di fallimentari politiche proibizioniste.
La grandezza di Don Gallo rimarrà quella di essere stato, soprattutto, un prete da marciapiede, come recita il titolo di un libro a lui dedicato (Don Gallo. Un Prete da Marciapiede, Bruno Viani, 2002). Un uomo che fece della prossimità fisica e della vicinanza morale alle situazioni di dolore la cifra quotidiana della sua esperienza di uomo di fede. Era convinto che l’emarginazione fosse uno stato di grazia. Che sottraesse al potere e “tenesse il fango a distanza”. Avvicinando a Dio. Fu così che Don Gallo pensò alla sua idea di recupero del “ghetto” di Genova, dei carrugi della “città vecchia”, tradizionale luogo del mercimonio sessuale, del racket e di una prostituzione che lui considerava un ineliminabile fenomeno da governare. Tutti insieme allora, borghesucci diffidenti, immigrati, famiglie per bene, puttane di Via del Campo e transessuali, chiamati a ricostruire, socialmente, la bellezza degli storici luoghi cantati da Fabrizio De Andrè.
Nei suoi libri e scritti – che consigliamo a tutti (tra i tanti, il più recente, Così in terra come in cielo, 2012) – nella missione della Comunità genovese di San Benedetto al Porto, Camera a Sud ha colto qualcosa che Don Gallo non aveva magari elaborato in maniera chiara. Ma di cui sembrava persuaso. E che noi sentiamo attuale. Parliamo del superamento culturale della distizione, tutta novecentesca, tra rifugiato politico – colui che, oggetto di persecuzione politica chiede asilo in un paese terzo- e immigrato. Quei tipi particolari di “anime salve” che fuggono dalla persecuzione della fame. Dalla negazione di opportunità economiche e sociali. Don Gallo sembrò avere chiaro che, nel mondo globalizzato, fosse ormai inutile, ad esempio, la distinzione tra un dissidente eritreo, vittima della spietata repressione del regime totalitario di Isaias Afewerki ed un tunisino o un egiziano. Le cui libere scelte economiche o di fare piccola impresa sono ancora oggi impedite da sistemi autoritari o neo-autoritati.
Il nostro saluto a Don Gallo è un saluto innanzi tutto a questa grandezza. Ciao Don Gallo, forse lassù hai trovato il Dio che hai cercato negli sbandati e in quanti hanno attraversato il mondo per un pezzo di pane. Noi ancora nulla, per ora. La nostra ricerca continua. Ma qualcosa di dio lo abbiamo intravisto. Nelle tue notti di Genova.