Uno studio uscito in Francia nel lontano 1988 recensiva 109 definizioni diverse del termine “terrorismo”. Benché la sua invenzione sia recente (14 novembre 1794), la definizione più comune – «uso del terrore come forma di lotta politica» – non segnala niente di particolarmente nuovo nella storia dell’umanità. La novità consiste più nel variegato uso del termine che nell’oggetto che esso intende designare.
In generale, è terrorista quell’avversario con cui – per le più svariate ragioni – non posso e non devo aprire alcuna trattativa. Questo lo scopo delle liste ufficiali stabilite da vari governi. La qualifica è, ovviamente, funzionale alla politica di chi se ne serve: i gruppi della lista americana sono infatti differenti, in parte o del tutto, da quelli presenti in liste analoghe dei governi cinese, turco, indiano o russo.
Va da sé che, a dispetto dell’ostilità pubblica, assoluta e irremissibile, le trattative sono invece sempre aperte: per concludere una guerra, per liberare degli ostaggi, o anche per servirsi dei terroristi a fini inconfessabili di politica interna o estera. Confusione lessicale e strumentalizzazione politica contribuiscono alla perplessità e alimentano le ansie.
Allora, senza entrare nel dedalo delle 109 definizioni, si può almeno tentare di abbozzare una importante distinzione.
Da una parte c’è il terrorismo come escrescenza, ala estrema (rivendicato, tollerato o misconosciuto) di una guerra politica, che contempla anche l’uso di altri mezzi: lo scontro campale, la diplomazia o le alleanze internazionali. Tra gli esempi, l’Irgun sionista in Palestina (1931-1948), i GAP nella resistenza italiana, il FLN nella guerra d’Algeria, l’IRA, le Tigri Tamil etc. In questo caso, il terrorismo – quale che sia la sua efficacia – può essere sradicato solo eliminando il problema politico che ne è all’origine.
Dall’altro, c’è il terrorismo che si giustifica e conclude in sé, senza retroterra, o con un retroterra striminzito, cioè con una base socialmente insignificante e politicamente perdente. Tra gli esempi, l’OAS in Algeria, le BR e congeneri, Al Qaida e congeneri, e così via.
È questa distinzione, ancorché implicita e incosciente, che permette di spiegare certe discriminazioni altrimenti ingiustificabili. Il giorno delle bombe alla maratona di Boston, una serie di attentati sconvolse l’Irak, provocando 75 morti e 356 feriti. Come ciascuno può verificare consultando i propri ricordi, quest’ultima notizia fu letteralmente oscurata dalla prima. Abbiamo letto, ascoltato e visto molto di più delle cinque vittime di Boston, o del soldato ucciso a Londra, che dei 1082 morti e 2572 feriti per atti di terrorismo che vi sono stati in Irak tra gennaio e aprile di quest’anno. La ragione ovviamente non può essere che i morti irakeni valgano meno dei morti americani. La ragione è che l’Irak è (più o meno) in guerra e l’America (più o meno) no: quindi, nel senso comune, e nella vulgata giornalistica, le bombe di Baghdad sono il cane che morde il padrone, e le bombe di Boston il padrone che morde il cane.
Parlando dei mazziniani che progettavano di far saltare Notre-Dame, Marx li bollò come “pazzi e somari”. Somari perché i terroristi fini a se stessi ottengono invariabilmente un risultato opposto a quello voluto, e diventano facilmente lo sprovveduto oggetto di altre finalità politiche (come accadde, appunto, ai mazziniani). Pazzi perché, come ha detto lo specialista Éric Denécé a proposito del soldato inglese fatto a pezzi per strada, «il limite tra l’atto psichiatrico e la violenza politica si è fatto tenue».
Il limite si è fatto tenue perché i somari hanno perso le loro battaglie, com’era inevitabile. E sono rimasti i pazzi. E questa, tutto sommato, è una buona notizia.
Pensiamo a quello che è accaduto a Boston e a Londra. I fatti, bruti e crudi, sembrano segnalarci che il mondo sia pieno di terroristi potenziali pronti a colpire ad ogni angolo di strada; ma non bisogna dimenticare che il mondo è anche pieno di pentole a pressione e di coltellacci da macellaio. La domanda che dovremmo porci, allora, non è perché questi attentati accadano, ma perché ne accadano così pochi.
L’atto terrorista gratuito cessa di essere terrorista perché cessa di essere politico; e dovrebbe cessare di farci paura perché, se comparato ad altri rischi, e ad altri pazzi che non pretendono di agire in nome di una Causa, è pressoché inesistente. Una volta liberi dalle nostre paure irragionevoli e statisticamente infondate, potremo finalmente dedicarci ad altro: una passeggiata, un buon libro, o magari a riflettere sul perché del terrorismo in Irak.