E tu dov'eri il giorno in cui uccisero Falcone?
Sono 22 anni che non vivo in Italia, e ancora più tempo nella nativa Sicilia. Non so quindi se questa frase sia ricorrente, tra i cittadini italiani ogni 23 di maggio. Ma, anche se non ce lo diciamo a vicenda, tutti noi, che viviamo in Italia o nel mondo, sospetto ricordiamo dove eravamo e cosa facevamo al momento della notizia dell’attentato al giudice Giovanni Falcone, sull’autostrada che va dall’aereoporto a Palermo.
Sarò passato centinaia di volte dall'uscita di Capaci, dove ora c'é quel monumento che ricorda Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli uomini della scorta Rocco DiCillo, Antonio Mortinaro e Vito Schifani. Dopo il ’92, ogni volta che arrivavo a Palermo, quel passaggio obbligava i tuoi pensieri a tornare a quel diabolico giorno.
Quel 23 maggio 1992, ero da pochi mesi a Boston, dove studiavo per il mio Master. Ero sul “T”, e due altri giovani italiani che non conoscevo, presumibilmente anche loro studenti, avevano ricevuto una telefonata dall’Italia poco prima – non c’erano ancora le email –. Sentivo ripetere il nome Falcone, ma non riuscivo a capire il resto della conversazione. Tornato a casa, trovai un lungo fax di mio padre, che da Palermo mi trasmetteva sensazioni di rabbia e paura. Ricordo come finiva quel fax: “Per fortuna che sei partito. Non tornare piú”.
Da allora quel giorno è rimasto scolpito nella mia anima di italiano, soprattutto di siciliano. Devo ammetterlo, in quelle ore, in quei giorni, non mi sono sentito mai, come credo tanti altri “isolani” nel mondo, cosí solo. Una forte sensazione di essere rimasto escluso dall’Italia, dal poter o voler riconoscere ogni forma di istituzione italiana. Una sensazione forte di abbandono reciproco. Mi sono sentito un “senza Stato”. Come se mi trovassi a studiare in America senza cittadinanza, un apolide. Questo mio “disturbo” iniziato dopo Capaci, raggiunse l’apice dopo la seconda strage a meno di due mesi di distanza, quella di Via D’Amelio che uccise Paolo Borsellino, il “giudice gemello di Falcone”, e con lui la sua coraggiosa scorta.
Due giorni dopo la strage di Capaci, tornato all’Università, fui accolto dai professori e colleghi come se fossi una celebrità, mi circondarono sommergendomi di domande: “Tu da siciliano, come spieghi quello che è successo? In Sicilia comanda Cosa Nostra? La mafia è proprio invincibile?”
Riuscii a smozzicare, balbettando in inglese, una frase: “La Sicilia è stata abbandonata, consegnata al comando della mafia”. Mi guardarono tutti, in modo strano. Soprattutto i professori con diffidenza replicarono. “Ma come? La mafia uccide Falcone, e tu te la prendi con Roma? E la responsabilità dei siciliani?”
Non avevo voglia di spiegare i miei sentimenti. Rinunciai. Provarono a farmi altre domande. Praticamente non risposi a nessuna, rimasi “omertoso”, come un mafioso. Piccoli cenni con la testa, di assenso o dissenso. Mi guardarono male, ma non ero in grado di esprimere, soprattutto in inglese, i sentimenti che in quel momento mi sconvolgevano l’anima. Rimasi ancora per qualche giorno come in trance.
Anche qui, negli Stati Uniti, i cittadini si domandano a vicenda: e tu dov’eri il giorno che uccisero il presidente Kennedy? Da quando sono diventato anche cittadino americano, ho ben compreso che nella storia di ogni nazione, anche quelle democratiche, ci sono buchi neri che feriscono lo spirito di tutti quei cittadini che non hanno paura nel volersi confrontare con la verità.
Anche in questo caso, come nella morte di Falcone, per l’America valgono simili considerazioni. Le vittime eccellenti di mafia, si chiamino JFK & RFK, Falcone & Borsellino, possono essere colpite soltanto dopo essere state “isolate” dallo Stato. La mafia, come le iene e gli sciacalli, attacca solo colui lasciato indietro dal resto del branco. E quindi i mafiosi possono colpire, con la certezza dell’impunità, grazie anche a quelle armi del ricatto che possono sfoderare per quelle antiche e segrete complicità con quello Stato che li ha usati “come strumento di governo”. Così avvengono le coperture, e la verità resta sepolta.
Falcone, Borsellino, Kennedy, tutti cadaveri eccellenti di mafia perchè i rispettivi “establishment” li avevano resi appettibili alla vendetta mafiosa.
Ricordando questi delitti, tutti noi, cittadini americani, italiani, siciliani, dobbiamo soprattutto comprendere che in quel momento con la morte di quegli uomini perdevamo anche un pezzo della nostra libertà. E’ solo con la verità, raggiunta attraverso la giustizia se non più in una corte di tribunale, almeno scolpita nelle pagine della storia, che riusciremo a farcela restituire.
moc.ynecoval @araccavs