“Se fosse vero, sarebbe pazzesco”, commenta il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, che guida il pool di magistrati che cerca di fare luce sull’attentato di via D’Amelio costato la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Il commento non poteva essere più appropriato. In effetti, è pazzesco che dopo 21 anni emerga un’immagine che mostra quella che ha tutta l’aria di essere la copertina di un’agenda, un’agenda di colore rosso. E’ quella di Borsellino, la famosa agenda rossa da cui Borsellino mai si separava, dove era solito annotare spunti investigativi, riflessioni, appunti?
Andiamo per ordine. Quella copertina viene trovata accanto a un corpo semi-carbonizzato, quello di Emanuela Loi, una ragazza che faceva parte della scorta di Borsellino. Lari è prudente, ed è prudenza necessaria, opportuna. Però è un fatto che quel “rosso” compare, ben visibile ancora pochi minuti dopo l’esplosione; poi con il piede di qualcuno che non si sa chi sia, un cartone che in parte occulta quel “rosso” viene scostato. E successivamente sparisce, non si sa più che fine abbia fatto. Ecco che entriamo nella dimensione del “pazzesco”.
“Pazzesco” perché questa immagine è tratta da un video, girato dopo l’esplosione, dai vigili del fuoco; video successivamente acquisito dalla polizia scientifica. Tuttavia non è stato segnalato come rilevante. Come mai? Perché? E chi si è assunto questa responsabilità?
Delle due l’una, ne ricava Lari: o gli investigatori che l’hanno visionato hanno escluso che quel “rosso” fosse l’agenda di Borsellino; oppure è sfuggito alla loro attenzione. Voi ci credete che quello spezzone sia sfuggito all’attenzione della scientifica? Allora siete anche pronti a credere che Dumbo esista davvero e da qualche parte voli. Ma se hanno escluso che possa essere l’agenda, bisognerebbe anche sapere su che basi sono arrivati a questa conclusione; dovrà ben esistere da qualche parte una relazione, un rapporto, con una firma…O no? Si è passati oltre, senza darsi minimamente pena di spiegare perché quel “rosso” non era rilevante?
Pazzesco, vero?
Non è la sola cosa che non torna. Mettiamo da parte, per un momento il “rosso”, forse agenda forse no. Occupiamoci per un momento della borsa nella quale di solito Borsellino riponeva l’agenda. Sappiamo che non è finita disintegrata dall’esplosione. Sappiamo che l’ex magistrato Giuseppe Ayala se la trova tra le mani; Ayala poi si rende conto che non essendo più magistrato non ha alcun titolo per detenere un così importante reperto e lo affida a un carabiniere in borghese. E’ documentato dalla conferma di Felice Cavallaro, giornalista del “Corriere della Sera” e da alcuni filmati amatoriali. Dopo un po’ questa borsa è nelle mani di un ufficiale dei carabinieri, Giovanni Arcangioli; lo si vede chiaramente da alcuni filmati. E sempre da un filmato vediamo che Arcangioli consegna la borsa a un tale, in borghese. Chi era? Arcangioli non se lo ricorda. Pazzesco. Ma dev’esserci una sorta di amnesia di massa, un’epidemia. Perché non ricorda Arcangioli a chi ha dato la borsa; ma neppure chi la riceve, ricorda nulla. Infatti per 21 anni tace. Ha preso la borsa ma non dice dove l’ha messa, a chi l’ha data, cosa c’era dentro. Anche lui ha dimenticato tutto. Pazzesco.
Non finisce qui. Pare comunque che questa borsa sia arrivata in qualche modo alla Squadra Mobile, e specificatamente nelle mani dell’allora dirigente Arnaldo La Barbera, il poliziotto che conduce anche le prime indagini sulla strage. Ne parlerebbe una relazione, anche se dove ora sia finita la borsa non lo sa nessuno; o almeno non lo dice. Pazzesco.
Ma le “pazzie” non sono finite qui.
Oggi sappiamo che l'inchiesta sulla strage di Via D'Amelio, all’inizio prese la direzione sbagliata. Ci sono voluti “solo” vent'anni per "scoprire" che la pista che portava al boss Pietro Aglieri era falsa, e che quella vera conduceva al capo mafia di Brancaccio Giuseppe Graviano e al fratello Filippo. Non che Aglieri, nonostante ostenti crisi mistiche, sia uno stinco di santo. Però è bene dare a ciascuno il suo. Aglieri, era capo mandamento della Guadagna, coinvolto nella strage di Capaci, espressione dell'ala militare e più interna di Cosa nostra; i boss di Brancaccio erano invece più “politici”, vantavano (o magari millantavano), collegamenti con Forza Italia. Per andare alla carne della questione, perché Caltanissetta, procura competente, riaprisse le indagini sono state necessarie la nomina di un nuovo capo della Procura, Lari appunto; e le confessioni di un nuovo collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, il killer di don Pino Puglisi e rapitore del piccolo Giuseppe Di Matteo; Spatuzza era agli ordini dei Graviano. Dopo Spatuzza ha parlato un altro mafioso, Fabio Tranchina, che curava i rapporti tra i Graviano e la politica.
Spatuzza rivela di aver lui rubato la Fiat 126 imbottita di tritolo e parcheggiata in Via D'Amelio davanti all'ingresso del palazzo della madre di Borsellino. E’ Giuseppe Graviano, nascosto dietro un vicino muretto, ad azionare il telecomando che fa esplodere l'autobomba. Una nuova verità che scagiona otto persone, tra le quali un falso collaborante, Vincenzo Scarantino: che dopo essersi proclamato innocente per due anni, si autoaccusa di aver commissionato il furto della 126 a un tale, Salvatore Caldura.
Fino al 2008 quando l’imbroglio viene svelato: Scarantino non è membro di Cosa nostra, è uno spacciatore di droga e di sigarette; l’affiliato (alla cosca di Aglieri) è invece il marito di sua sorella, Salvatore Profeta, condannato all'ergastolo per la falsa accusa di aver commissionato al cognato il furto della 126. I magistrati nisseni fanno due più due e decidono che ad eseguire l'attentato è stato il gruppo di fuoco della Guadagna. Stranamente bastano poche settimane perché il pentimento di Scarantino sia giudicato autentico; da chi? Dall'allora capo della mobile di Palermo; che era Arnaldo La Barbera. Lo stesso che, secondo la relazione avrebbe avuto tra le mani la borsa di Borsellino. Tre anni fa si scopre che La Barbera era nel libro paga del Sisde, il servizio segreto civile.
Una coincidenza è una coincidenza. Due coincidenze sono due coincidenze. Quando diventano tre o quattro, allora si può almeno dire: “pazzesco”?
Ascoltiamo Lari: “A fine giugno 2008 mi arriva una nota del Procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, con cui mi viene trasmessa copia del verbale di un colloquio investigativo di Gaspare Spatuzza, all'ergastolo per le stragi del '93 e autore di una quarantina di omicidi, il quale si autoaccusa e accusa altri di essere stato lui l'artefice del furto della 126 usata in Via D'Amelio. La versione che Spatuzza fornisce circa la preparazione della strage confligge con quella fornita da Scarantino, a sua volta arrestato per le false dichiarazioni di Candura”. Lari interroga Spatuzza, per trasformare il colloquio investigativo in un verbale processualmente utilizzabile. Spatuzza parla, sembra preda di una profonda crisi mistica; i magistrati sono scettici, è dura da digerie che i tre processi già celebrati su Via D'Amelio poggino su accuse false. Poi tocca prendere atto della realtà: per quanto inverosimile e “pazzesca”, è proprio come racconta Spatuzza. “Cominciai a convincermi”, dice Lari, “che diceva la verità dopo il sopralluogo nella via in cui era stata rubata la 126 in uso a Pietrina Valenti”. A nessuno era venuto in mente in vent'anni di compiere questa banale operazione. “Sono andato a recuperare la proprietaria dell'auto per farmi mostrare il punto esatto della strada dove la macchina era parcheggiata prima del furto. Ho ripetuto l'operazione con Candura, che mi ha indicato un posto diverso. Poi ho fatto venire Spatuzza, che senza esitare mi ha additato lo stesso luogo indicatomi dalla Valenti”.
Spatuzza racconta di aver fatto cambiare prima dell'attentato le ganasce dei freni dell'auto: anche questo è vero, lo si accerta grazie al ritrovamento del tamburo tra i resti della vettura.
La pista Scarantino sempre più appare una bufala. Candura è un balordo, vive di spaccio e furti d'auto. È sposato, ha una figlia, ma contemporaneamente ha una relazione omosessuale con un tale da cui si fa mantenere. È amico del fratello di Pietrina Valenti, Luciano: seminfermo di mente, come la sorella e gli altri fratelli; di Luciano si serve come attore per girare filmini porno. Questo il contesto.
Scegliete voi se il “pentimento” di Scarantino sia da considerare un clamoroso errore investigativo o un colossale depistaggio. Il risultato non cambia. A vent’anni dalla strage, sono ancora tanti gli interrogativi. Borsellino quel giorno è in vacanza al mare. Sono le 16,40 quando viene comunicata alla scorta la decisione di andare a via D’Amelio dove abita la madre del giudice. Chi era a conoscenza degli spostamenti di Borsellino?
Quel pomeriggio a via D’Amelio dei ragazzini giocano per strada, non danno fastidio a nessuno, ma un condomino li manda via. Perché? Chi è quel condomino? Si chiama Salvatore Vitale, è un mafioso, abita in quella strada, è il proprietario del maneggio dove andava Giuseppe Di Matteo il figlio di un pentito, che viene rapito e strangolato, il corpo sciolto nell’acido.
Che ruolo ha avuto Vitale? Perché nessuno indaga su di lui?
Chi ha portato, a via D’Amelio, almeno il giorno prima, l’automobile rubata dieci giorni prima, e imbottita di tritolo?
Perché uccidere Borsellino? Qui entra in gioco qualcosa di non meno “pazzesco” di quanto abbiamo fino a questo momento incontrato; e torbido: la cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, cominciata dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone. Borsellino, lo sappiamo, per la sua fornazione culturale ed etica, per la rigorosa concezione dello Stato che coltivava, era contrario a qualsiasi forma di negoziato; qualsiasi cedimento verso Cosa nostra equivaleva ai suoi occhi a un tradimento. Borsellino incarnava insomma la fermezza del diritto e della legge che non scendono a patti. Ascoltata dai magistrati, la vedova Agnese ha raccontato di confidenze fattegli dal marito: “C'è una trattativa tra la mafia e lo Stato dopo la strage di Capaci, c'è un colloquio tra la mafia e alcuni pezzi infedeli dello Stato…Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere”.
Secondo Lari “rimane il fatto che certamente delle richieste furono avanzate da Cosa nostra e che il mancato accoglimento determinò l’accelerazione del progetto omicidiario nei confronti di Borsellino che comunque era già stato deliberato da Cosa nostra nella riunione della commissione regionale del settembre-ottobre ’91 e che fu seguita da una riunione deliberativa in occasione degli auguri di Natale“. Questo anche se “…non abbiamo potuto appurare se Borsellino sia stato indicato da Riina come ostacolo da rimuove o da superare come ha detto Brusca in quanto essendo venuto a conoscenza della trattativa si era opposto, o piuttosto essendo giunta la trattativa ad un binario morto, perché le richieste di Riina erano oggettivamente inaccoglibili da parte dello Stato, Riina abbia pensato di eseguire il progetto di morte – fra l’altro già deliberato – con l’intento di rivitalizzare la trattativa e costringere lo Stato a scendere a patti. Queste sono delle ipotesi rispetto alle quali una risposta certa oggi non è possibile darla. Soltanto Riina, Provenzano, Bagarella o forse i Graviano sanno qual è la verità ammesso che Riina abbia confidato agli altri da cosa sia dipesa la decisione di accelerare il progetto omicida e potrebbe anche darsi che in questa decisione di Riina siano intervenuti dei fattori esterni“.
Borsellino sa che è arrivato il tritolo anche per lui. Si confida con un sacerdote, con il vecchio “padre” del pool antimafia Antonino Caponnetto. Sa di avere i giorni contati. E’ possibile che sia a conoscenza di qualcosa di indicibile; un indicibile che forse annotas in quell'agenda rossa da cui non si separa mai; quell’agenda che sparisce appena l’esplosione uccide Borsellino; che qualcuno fa sparire, ed è un qualcuno che non può essere la mafia.
Qualcuno dei servizi? Uniamo i vari fili, e tutto conduce a un’unica parte, i nomi che girano sono sempre gli stessi. Una coincidenza dietro l’altra, una più inquietante dell’altra. Qualcuno, ancora senza nome e senza volto, ha sottratto quell’agenda e la custodisce ancora, a vent’anni dalla strage, in qualche luogo inaccessibile; e siamo a un paradosso che lascia l’amaro in bocca: mentre uomini delle istituzioni cercano faticosamente di fare luce su quella strage, altri, presumibilmente appartenenti ad altri rami delle istituzioni, si sono attivati perché quella verità non si sappia. Cosa avesse scritto Borsellino in quell’agenda da cui mai si separava non lo sappiamo, ma certo qualcosa ci doveva essere, qualcosa di indicibile, se la si è fatta sparire.
Ennesimo mistero. Per esempio la borsa da cui il generale Dalla Chiesa non si separava mai, con dentro documenti e carte preziose. Qualche settimana fa la borsa del generale è stata trovata in un ufficio del tribunale di Palermo. Vuota. Dei documenti nessuna traccia. Spariti anche gli appunti del commissario Ninni Cassarà, stretto collaboratore di Falcone, ucciso nell’agosto del 1985. E a proposito di misteri: dopo l’attentato in cui Giovanni Falcone perde la vita, qualcuno si introduce nel suo ufficio al ministero di Giustizia e fa sparire la memoria del suo computer. Come dice il procuratore Lari, “è pazzesco”. Ma “pazzesco” non significa che, purtroppo, non sia vero…