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May 17, 2013
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Un lavoro per vivere, ma anche per morire

Francesca SettipanibyFrancesca Settipani
Il Bangladesh produce per l'Occidente, ma è uno dei paesi più poveri del mondo

Il Bangladesh produce per l'Occidente, ma è uno dei paesi più poveri del mondo

Time: 4 mins read

Sulla scia delle emozioni scatenate all'indomani della tragedia che in Bangladesh ha ucciso in un solo giorno un numero di lavoratori ben maggiore di quello che in un anno abbiamo nella nostra “evoluta e certificata” Italia, finalmente ieri, dopo le proteste dei lavoratori locali e le lacrime di coccodrillo delle imprese multimilionarie occidentali, si è sottoscritto un accordo fra il governo del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, e la gran parte delle aziende occidentali, in particolare le europee Benetton, H&M, Inditex (che controlla  Zara), C&A, Tesco, Mark&Spencer, Primark, Mango; non sorprende più di tanto (purtroppo) la mancanza degli statunitensi con l'eccezione del gruppo Pvh (che controlla Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e la Disney, che già da tempo ha abbandonato il Bangladesh.

Un accordo scritto non si sa con quale futuro: ha il retrogusto della reazione al disastro, tanto tra un po' la gente dimentica.

Oppure davvero il fragile, debole e misero Bangladesh riuscirà a proteggere la sua popolazione? Vedremo…

Chi scrive ha voluto elencare pedissequamente i nomi dei grandi marchi coinvolti poiché la maggior parte di noi ha fra i propri abiti almeno una maglietta o un pantalone firmati da uno di essi e non certo pagati dieci euro ed allora è bene riflettere, e riflettere bene, su dove stiamo andando e come lo stiamo facendo.

 

Ormai nel dimenticatoio insieme a tante altre notizie che raccontano di fatti veri, poco tempo fa fece scalpore la OMSA, un colosso mondiale delle calze da donna, che chiuse i battenti dello storico stabilimento italiano non certo perché fiaccata dai debiti ma perché, inseguendo guadagni ancora maggiori ed in spregio alla alta qualificazione delle proprie dipendenti, con un fax inviato alla vigilia di Capodanno 2012 ha comunicato a 239 lavoratrici il loro licenziamento.

Un fax.

Punto.

Certamente in Serbia, molto più vicina all'Italia geograficamente di quanto non sia il Bangladesh ma decisamente più lontana soprattutto riguardo a tassazione e fiscalità, la proprietà pensa che lucrerà ancor di più su una produzione che non era affatto in crisi anzi produceva e vendeva tantissimo; magari continuerà a fregiarsi del marchio made in Italy pur avendo abbandonato la nave in un momento di crisi  economico-finanziaria per il Paese al solo scopo di fare qualche profitto in più sfruttando manodopera a basso costo all'estero e buttando per strada 239 donne, molte delle quali dopo oltre un anno sono ancora in cassa integrazione o comunque non riassorbite in altre realtà produttive.

Tralascio volontariamente le riflessioni in merito a cosa non si è fatto negli ultimi anni per proteggere l'economia produttiva del Paese Italia ed i propri cittadini coinvolti in questa come in altre vicende simili e pongo l'attenzione sulla questione del “consumo consapevole” in relazione al lavoro per vivere, ma anche per morire.

 

Inutile nascondersi dietro un dito: tutti noi occidentali ricchi e legati all'immagine (perché così siamo anche se le fabbriche chiudono, gli operai sono in sciopero, le scuole  e gli ospedali arrancano, i cervelli fuggono), quando andiamo ad acquistare una maglietta a settanta euro (e pochi sono a seconda del marchio) dobbiamo saperlo che per produrla è stato impiegato un povero disperato che guadagna 37 dollari al mese dall'altra parte del mondo, lavorando dodici ore al giorno o anche più in edifici fatiscenti, senza servizi igienici, magari avendo accanto un bambino che ha i suoi stessi turni di lavoro.

Dobbiamo prendere coscienza di ciò e fare scelte consapevoli, magari acquistare prodotti italiani fatti in Italia da mani italiane.

 

Sappiamo bene che nel nostro Paese la strada per il rispetto delle norme vigenti in materia è ancora in salita e molto lunga, ma certamente molti imprenditori si sono adeguati investendo parte delle proprie risorse finanziarie in processi di miglioramento di ambienti, macchinari ed attrezzature e molti lavoratori hanno capito che è bene comportarsi sul lavoro secondo i dettami e le norme di buona pratica che salvaguardano la loro salute psico-fisica.

Pur essendoci ampi margini di miglioramento e malgrado le 654.000 denunce di incidenti sul lavoro e gli 870 morti del 2012 (dati INAIL, numero degli infortuni sul lavoro in calo di circa il 9% rispetto all'anno precedente), lavorare in Italia è più sicuro che in altre parti del mondo, sopratutto quelle parti dove i lavoratori sono quasi-schiavi, non importa che età abbiano, in quali condizioni vivano ed operino, ed i rispettivi governi non hanno la forza di far rispettare minime norme di sicurezza ed igiene o forse non ne hanno proprio voglia.

Dunque è giusto che un prodotto tessuto, cucito, confezionato ed etichettato come vero made in Italy sia più costoso… ma allora perché pagare la stessa cifra o di più un prodotto che per certo si sa che di made in Italy ha solo il marchio (il marchio non l'etichetta, quella magari viene prodotta in Cina… ).

 

La globalizzazione dei mercati, dei sistemi produttivi e di comunicazione è sicuramente un aspetto positivo del progresso e coinvolge Paesi dove fino a poco tempo fa non si guadagnavano neanche i 37 dollari al mese di cui sopra; sfortunatamente però non si può prescindere da un atteggiamento di consapevolezza in ciò che si sceglie di mangiare, vestire, abitare, ecc.

Le morti sul lavoro sono una vergogna che investe gli umani occidentali non soltanto dal punto di vista delle pratiche scorrette, della mancanza di adeguati controlli o peggio ancora (come nel caso di Paesi sottosviluppati usati dai più ricchi per spremere il più possibile la povera gente ed ingrassare i propri conti in banca) della inesistenza di norme adeguate alla salvaguardia ed alla dignità del lavoratore; è una vergogna che investe anche gli umani occidentali consumatori, che con le loro scelte “di immagine” fanno finta di non sapere che quella scarpa da ginnastica è cucita da un bambino per pochi dollari al mese ed arriva nei nostri negozi impacchettata e pronta per essere venduta a 150 dollari o anche di più.

Il consumatore consapevole dovrebbe rifiutarsi di acquistare prodotti che sono macchiati di sangue, morte, schiavitù, lavoro minorile.

Dovrebbe…

 

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Francesca Settipani

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