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– Francesco Tatò è uno dei top manager italiani più rispettati e preparati. È recente (luglio 2011) la sua nomina a presidente della Parmalat e dal 2003 ricopre la carica di amministratore delegato dell’Istituto dell’Enciclopedia Italia (Treccani). Nato a Lodi, laureatosi in filosofia (1955) presso il Collegio Ghisleri di Pavia, ebbe modo di perfezionare i suoi studi in Germania a Munster e ad Harvard. La carriera manageriale di Francesco Tatò (nella foto) inizia alla Olivetti per poi svilupparsi sia nel settore privato che in quello pubblico. Figura chiave della privatizzazione dell’industria di stato italiana (Enel) è anche un apprezzato divulgatore scientifico ed autore. Alcuni dei titoli da lui pubblicati: Autunno tedesco – cronaca di una ristrutturazione impossibile (1992), Essere competitivi. Le esperienze di due protagonisti scritto con Riccardo Ruggeri AD di New Holland (1995). Perchè la Puglia non è la California (2004), Diario Tedesco.
La Germania prima e dopo il muro (2004). Con Francesco Tatò parliamo della sua esperienza manageriale, della tradizione industriale italiana e della difficile situazione politica ed economica che il Paese attraversa.
Lei ha trascorso circa 25 anni in Olivetti, una azienda ancora ricordata ed apprezzata negli Stati Uniti. Cosa la distingueva e perché è scomparsa dalla scena industriale mondiale?
La Olivetti è stato un esempio di industria tecnologicamente e socialmente avanzata nell’Italia del dopoguerra. Nel mercato delle macchine per ufficio raggiunse una posizione importante a livello internazionale affermandosi soprattutto per l’eccellenza del design dei prodotti e la professionalità del servizio. In Italia raggiunse una posizione dominante e si distinse per l’attenzione alla responsabilità sociale dell’impresa, per i metodi produttivi avanzati e per la partecipazione allo sviluppo della cultura del Paese. Ben poche imprese seguirono il suo esempio, anzi fu ampiamente criticata dall’establishment confindustriale. All’Olivetti si sono formati molti manager di valore ed esperienza internazionale. Alla fine degli anni Settanta e durante gli Ottanta, superata una prima crisi, che possiamo definire l’eredità di Adriano non gestita, si dovette confrontare con l’ingresso dell’elettronica nel mercato delle macchine per ufficio e in seguito con lo stravolgimento organizzativo delle imprese generato dallo sviluppo e dall’affermazione travolgente dei personal computer. Soprattutto durante la gestione di Carlo Debenedetti, l’azienda sbagliò tutte le scelte tecnologiche e non seppe sfruttare la grande potenzialità dell’organizzazione commerciale e dei giovani tecnici di cui disponeva. Sulla fine dell’Olivetti si sono scritte molte pagine: ciò che ha distrutto una delle più importanti aziende italiane è stata una gestione cieca e una strategia di prodotto sbagliata su più anni. Non posso tacere di essere stato all’opposizione e infatti sono stato licenziato quando l’Olivetti Office, il settore di cui ero responsabile, chiudeva i conti in profitto come tutte le società Olivetti delle quali mi sono occupato in prima persona. Per l’Olivetti, come per ogni altra azienda, vale la prova finestra: mettiamo in fila i conti e i nomi dei responsabili, il resto sono chiacchiere. Un grande dolore per noi che nell’azienda abbiamo creduto fino all’ultimo e una grande perdita per l’Italia.
Quali esperienze maturò in Olivetti e come le sono valse nel corso dei successivi incarichi di AD di altre aziende?
All’Olivetti devo molto della mia formazione, in particolare le esperienze internazionali, ma soprattutto il legame essenziale tra il successo nel business e l’integrità e il rigore dei comportamenti, così come la responsabilità sociale e la coscienza che l’attività economica si sviluppa in stretto contatto con l’evoluzione culturale della società cui si appartiene. Ho anche lavorato per cinque anni in Olivetti General Electric, anni nei quali sono stato a stretto contatto con un gruppo straordinario con valori di fondo simili a quelli dell’Olivetti e ritengo quegli anni molto importanti per la mia formazione, tanto da ritenermi a tutti gli effetti un manager di stampo GE.
Tra i suoi incarichi manageriali vi è anche una doppia presenza (in due successivi periodi) in Mondadori e Fininvest. Come descrive questa sua esperienza nella azienda di Segrate e in Fininvest. Ha mai subito sollecitazioni politiche da parte della proprietà?
In totale sette anni, di cui cinque con Berlusconi. Devo dire che sul piano operativo Berlusconi si è sempre comportato correttamente, rispettando le mie responsabilità di gestione dell’azienda in un periodo particolarmente difficile e mi riferisco in particolare al periodo Fininvest durante la cosiddetta discesa in campo. Berlusconi, da persona attenta ai rapporti interpersonali, sapeva fin dove poteva arrivare e sapeva anche di poter contare sulla mia lealtà. Credo anche che per certe cose che gli stavano a cuore sapesse come ottenerle senza mettermi in imbarazzo.
Sono certo di essergli stato utile, sia quando assunsi la responsabilità della Mondadori immediatamente dopo il discusso esito della cosiddetta Guerra di Segrate, sia quando imposi una dieta stretta alla galassia Fininvest mentre Berlusconi faceva la campagna elettorale. Nel primo caso doveva dimostrare di essere un editore attento ai risultati economici e ad una linea editoriale di obiettività e indipendenza, nel secondo caso perché la banche temevano le conseguenze di un eventuale esito negativo delle elezioni su un’azienda indebitata e mal gestita: appena vinte le elezioni il merito di credito passò in secondo piano e fui fatto rientrare in Mondadori perché non servivo più, anzi potevo diventare pericoloso. Credo di avere fatto un buon lavoro soprattutto in Mondadori, un’azienda alla quale mi sento molto legato. Non è un caso se non sono stato coinvolto nella successiva stagione di processi. Molto problematica è stata la convivenza con alcuni stretti e inamovibili collaboratori di Berlusconi e questo è stato il motivo per cui accettai con sollievo l’offerta di diventare AD dell’Enel, dove sono rimasto sei anni e ho fatto un’esperienza professionale e umana indimenticabile. L’Enel nel ’96 era un monolite di Stato con 96000 dipendenti che chiudeva i conti con un modesto profitto dando un servizio spesso inaccettabile e ancora piagata dalla stagione delle tangenti. In breve tempo abbiamo realizzato la separazione contabile e societaria delle principali funzioni, la quotazione dell’azienda a Milano e New York dopo averla snellita di trentamila dipendenti, abbiamo venduto tre società di generazione e creato il mercato elettrico, abbiamo fondato Enel Green Power, leader mondiale delle energie rinnovabili, abbiamo fatto la prima acquisizione all’estero comprando la spagnola Viesgo, abbiamo fondato Wind, terzo operatore di telefonia mobile, sviluppato il primo contatore elettronico installandone trenta milioni e molto altro ancora. Ho lasciato un’azienda altamente profittevole con manager di prim’ordine. Ci tengo a dire queste cose perché qualche volta si dimentica che anche in Italia sono possibili grandi trasformazioni. Soprattutto durante il primo governo Prodi abbiamo avuto la percezione di partecipare a un grande progetto di rinnovamento. Col ritorno di Berlusconi nel 2002 non sono stato rinnovato. L’Enel si è impegnata in una costosa campagna di acquisizioni che l’hanno portata a in dieci anni a perdere oltre metà del valore. No comment.
Dal 2003 ricopre l’incarico di AD della Treccani (un monumento della cultura nazionale italiana). Perché ha rinunciato alla versione online abbracciata dalla Enciclopedia Britannica. Perché in Italia stenta a decollare una cultura del sapere e dunque un mercato del sapere?
Se consulta http://www.treccani.it troverà non solo l’Enciclopedia Italiana online, ma un vero portale di servizi culturali. La formula è diversa dall’Enciclopedia Britannica, anche perché il sapere enciclopedico Treccani si articola in più opere con diverso livello di complessità. Potrà consultare gratuitamente circa 600.000 lemmi che diventeranno 800.000 in autunno, e per ciascuno potrà accedere a una serie di approfondimenti di tipo saggistico, cosa che ci distingue da Wikipedia. Non abbiamo rinunciato a vendere le edizioni cartacee perché in Italia è ancora possibile vendere opere enciclopediche in edizione di lusso. Riassumendo, il sapere enciclopedico è migrato in rete e l’istituto dell’Enciclopedia Italiana continua a vendere opere di lusso, volumi artistici su temi specifici, facsimile di altissima qualità e altre opere in edizione libreria e in forma di ebook e APP. Siamo orgogliosi di aver messo a disposizione di tutti e in particolare dei giovani studiosi un sapere che fin’ora era riservato alle istituzioni o ai ricchi che potevano permetterselo: tutto questo mantenendo un livello di ricavi accettabile per il settore e non chiedendo sacrifici agli azionisti. Non abbiamo ancora terminato il lavoro di ristrutturazione e abbiamo ancora qualche progetto da realizzare, ma siamo a buon punto. Il mercato del sapere in Italia incontra molti ostacoli e si potrebbe stendere un lungo elenco: privilegi corporativi, complessità regolatorie inimmaginabili, sovvenzioni ingiustificate, ma soprattutto un’infrastruttura di telecomunicazioni lenta e piena di falle. Qui veramente una serie di coraggiosi interventi potrebbe cambiare la faccia del paese, ma non vedo nessuno che ci voglia provare.
Perché ci sono pochi manager italiani alla guida di multinazionali o aziende non italiane?
Forse ai vertici, ma nelle strutture delle multinazionali gli italiani sono moltissimi e, mi risulta, bravissimi. Basta fare un giro a Londra e vedere quanti italiani operano con successo nelle banche e nelle finanziarie. Lo stesso vale per le università. La spiegazione è fin troppo evidente. Dove funziona la meritocrazia i migliori si affermano. Forse ai vertici qualche considerazione non strettamente meritocratica viene fatta alche all’estero.
Lei fu tra i primi top manager italiani a scoprire la Puglia e il fascino dei suoi casali (dedicandovi anche un libro “Perché la Puglia non è la California”). Estendiamo il discorso al Sud. Perché questa parte del Paese stenta a decollare economicamente? Quali sono a suo giudizio i freni alla crescita economica ed anche civile del Mezzogiorno?
Vorrei evitare di dare una risposta convenzionale, di tipo politico per intenderci. In fondo nel mio libro ho cercato di indicare molte cause e anche qualche rimedio nel quale ancora credo, ma sono passati tanti anni e nessuno mi ha neppure chiesto una consulenza. Forse sbagliavo io, ma certo questa situazione del Mezzogiorno va avanti da decenni e tende a peggiorare: uno o più motivi ci devono essere. Se vogliamo essere colpevolmente sintetici possiamo dire che la situazione del Meridione, con diversi livelli di gravità, è dovuta alla corruzione diffusa, alla criminalità organizzata, al malfunzionamento della giustizia, al malfunzionamento dello Stato e delle Regioni e dei comuni con quello che ne consegue, e alla diffusa inerzia, quando non complicità, delle classi dirigenti locali sempre alla ricerca di sovvenzioni. Chi avrà il coraggio di togliere le sovvenzioni discrezionali e sostituirle con benefici fiscali automatici, potrà dire di aver iniziato un percorso di risanamento.
Lei da AD di Mondadori e di Fininvest è stato vicino al presidente Berlusconi. Non è mai stato tentato di scendere in politica e magari di arrivare a un incarico ministeriale?
Proprio perché sono stato vicino a Berlusconi e sono al corrente delle sue motivazioni, non ho mai avuto la tentazione di entrare in politica. Inoltre non ho un sufficiente grado di resistenza alle frustrazioni.
Che giudizio dà del governo tecnico guidato dal Prof. Mario Monti. Riuscirà a far passare le riforme che ha presentato oppure il veto incrociato di partiti e parti sociali lo costringeranno a ridimensionare la sua agenda politica?
Sicuramente il Governo Monti rappresenta un cambiamento enorme rispetto al passato e non solo quello immediato, con poche eccezioni. Il presidente Monti ha permesso all’Italia di poter difendere i suoi interessi nel concerto internazionale e anche di contribuire allo sviluppo delle politiche internazionali. Sul fronte interno la vita del governo è più difficile, in parte per problemi di rodaggio, ma anche per un problema di fondo. Credo che la forte sensibilità istituzionale del capo dello Stato, vero artefice del cambiamento necessario, abbia impedito che il Governo operasse prevalentemente per leggi delega, cioè che il parlamento decidesse sui principi, ma lasciasse all’esecutivo le determinazioni realizzative. Il risultato è che i provvedimenti di riforma, già frenati in partenza, vengono svuotati dal parlamento in difesa di interessi corporativi. Uno per tutti il decreto sul lavoro. Faccio un solo esempio: ci aspettavamo più flessibilità in uscita e più buon senso in entrata. Il risultato involontariamente umoristico è che non possiamo neppure liberamente dimetterci, dobbiamo passare per gli uffici del lavoro. Non cerchi di spiegarlo a un americano. Nonostante tutto dobbiamo augurarci che il Governo continui e anzi rafforzi la sua azione sperando di non essere travolti dagli eventi.
Che futuro vede per il Paese? Riuscirà la politica a rinnovarsi e trarlo fuori dalla stagnazione economica?
Sono i cittadini che devono rinnovare la politica e comunque dalla stagnazione economica non si esce per decreto. Non sono molto ottimista.