Lui si definiva un miracolato e passò il resto della vita a ringraziare Dio per avergli salvato la vita. Ma la riconoscenza della fede non fermò l’impegno dell’uomo: Alfred Zampa, per gli amici Al, dopo essere volato per centinaia di metri dalle funi del Golden Gate Bridge di San Francisco, dopo essersi fratturato alcune vertebre, risalì sulle stesse funi e continuò il suo lavoro, iniziando al tempo stesso una strenua battaglia in favore della sicurezza del lavoro. Affinché ad altri non toccasse una sorte peggiore della sua, affinché il lavoro, anche in condizioni estreme, equivalesse a dignità e sicurezza.
La sua battaglia, Al Zampa l’ha vinta. Nella vita e oltre. Negli Stati Uniti gli unici due ponti che portano il nome italiano sono due: il leggendario ponte Verrazzano di New York, e l’altrettanto leggendario Alfred Zampa Memorial Bridge costruito nel 1973. Dedicato a un vero paladino della lotta per il diritto alla sicurezza del lavoro.
Era nato a Selby, Alfredo Zampa la futura leggenda degli “ironworkers” d’America, ma non ci sono dati certi. Da una ricognizione nella parrocchia del paese natale (Ortucchio) si evince infatti una nuova data e un nome diverso per questo uomo destinato a entrare nella leggenda del mondo del lavoro. Nel 1903 egli nacque così probabilmente con il nome di Amedeo, figlio di Andrea (chiamato però Emilio) e nipote di Gaetano Zampa. Sposato con Maria Tranquilli, il nonno forse s’imparentò con un altro ceppo illustre della Marsica italiana, quel Secondo Tranquilli destinato a passare alla storia con il nome di Ignazio Silone e con il romanzo “Fontamara”.
Mantenendo fede a un’usanza tipica di molte famiglie migranti, Amedeo si vide trasformare il proprio nome in quello di Alfredo e come Al visse il resto dei suoi giorni, lasciando la vita terrena alla veneranda età di 95 anni. Una esistenza vissuta “A metà strada tra l’inferno e il paradiso” (questo il titolo che diede al libro in cui raccontò la sua sto ria), e trascorsa a pochi passi dal ponte che da domenica 9 novembre porta il suo nome. Per 45 anni anni Al Zampa lavorò sulle funi d’acciaio dei ponti americani, operaio specializzato nella costruzione e nella manutenzione dei giganti sospesi sull’acqua, condividendo con il fratello e due sorelle la vita dignitosa della comunità italiana della baia di San Francisco. Alfredo crebbe nelle difficoltà tipiche dell’integrazione, non potendo contare neppure su un nucleo regionale affine alle proprie tradizioni. In un’area segnata dalla grande presenza di nuclei siciliani e liguri (in gran parte pescatori trasformatisi in commercianti), il giovane marsicano delle aspre montagne appenniniche crebbe con il mito della sua terra, cui la natura da sempre ha regalato un coraggio fuori dal comune. Al non vide però mai la propria terra d’origine, viaggiandovi però con la fantasia attraverso i racconti di mamma e papà, trasformando la propria esistenza in una continua sfida alla fortuna. In una giornata di ottobre del 1936 la fortuna gli regalò infine la più grande delle sue giornate, allo stesso tempo terribile e sublime. Una giornata iniziata come tante, sul filo (letterale) dell’equilibrio, sospeso a centinaia di metri d’altezza, su un ponteggio del famoso Golden Gate di S. Francisco.
Bastò una banale scivolata sul ferro bagnato dei cavi a tasformarla in leggenda. Al Zampa volò giù e precipitò sulle rocce sottostanti, salvato dalla miracolosa azione di alcune reti di protezione. Il giovane operaio se la cavò con la rottura di quattro vertebre ma divenne l’esempio vivente dei miracoli tra i tanti connazionali impegnati sulle impalcature dei cantieri.
Divenne un vero eroe, dopo quattro anni di duro ricovero al St. Luke Hospital, quando decise, contro il parere di tutti, di tornare a lavorare sui ponti d’America. Ma il volo nel vuoto non lasciò insensibile il tenace italiano. Ricordando il suo incidente come la “sua favola d’oro”, Al Zampa diede vita all’associazione chiamata “A metà strada tra il paradiso e l’inferno”, impegnandosi a sostenere tutte le battaglie della categoria, in favore di un lavoro più sicuro. E continuò il suo lavoro per quasi dieci lustri, instancabile operaio specializzato sui ponti più celebri della California, del Texas, dell’Arizona e dello stato d New York.
“Ho appreso da lui il grande amore per questo lavoro, che sicuramente non tutti possono fare. Noi ci trovavamo spesso accanto a giovani operai di origine pellerossa e solo con loro potevamo gareggiare sul filo dell’incoscienza. Mio padre era un uomo umile ma dal grande cuore e dava una mano a tante persone in difficoltà. Non è mai diventato ricco, ma il suo cuore lo ha trasformato nella leggenda degli ironworkers”.
Il figlio Richard ricorda con orgoglio il grande insegnamento di Al, dopo averne seguito le orme nel lavoro. Altrettanto hanno fatto suo fratello e i suoi figli, perpetuando una dinastia di tecnici acrobati e di sindacalisti impegnati a favore della propria categoria professionale. A differenza di suo padre e di suo nonno il nipote Don ha invece potuto finalmente scoprire la terra degli avi e girare per le strade di Ortucchio, alla ricerca dei numerosi punti di riferimento tramandati dai suggestivi racconti di famiglia. Don ha affidato al web e a facebook la cura di una pagina dedicata alla "Alfred Zampa Memorial Bridge Foundation" che raccoglie testimonianze e idee per la battaglia no stop contro i pericoli del lavoro degli ironworkers degli Stati Uniti. Al Zampa si ritirò dal lavoro nel 1970, all’età di 65 anni ma il pensionamento servì soltanto a dare più slancio al suo impegno nel sindacato di categoria. Autore, insieme a Isabelle Maynard, di "The Ace" un volume sulla sua vita e sull’impegno in favore della sicurezza dei cantieri, l’italoamericano seguì da pensionato l’inizio dei lavori per la costruzione che poi avrebbe preso il suo nome, in sostituzione del vecchio Carquinez Bridge che lui stesso aveva contribuito a costruire nel 1927 nella baia di San Francisco Diede i suoi consigli per la sicurezza del cantiere e non si stancò mai di difendere i diritti dei lavoratori in tema di sicurezza. Morì nel 2000, lasciando dietro di sé una salutare iniezione di stima per la maggioranza degli italiani d’America, gente troppo spesso dimenticata a favore dei fortunati rappresentanti del professionismo rampante, o del mondo dello spettacolo.
La dedica del sesto ponte più lungo degli Stati Uniti (appena dietro il famoso ponte di Brooklyn) è la vittoria dell’uomo comune, cui l’America ha regalato un lavoro e una dignità da trasmettere ai posteri.