Ci sono delle volte in cui non si sa come iniziare un articolo. Perché le cose da mettere subito in evidenza sono tante e si ha l’imbarazzo della scelta. Un inizio giusto per la storia che andiamo a raccontarvi potrebbe essere: «Il tumore, cioè il male incurabile per eccellenza, oggi è curabile». La notizia interesserebbe di sicuro: i decessi per cancro sono tuttora tragicamente all’ordine del giorno, in pratica non c’è famiglia al mondo che tra parenti e amici non conti delle vittime. Ma, magari, un lettore si incuriosirebbe di più alla seguente premessa: «Il famoso giornalista radiotelevisivo Michele Cucuzza e l’autorevole matematico italoamericano Mauro Ferrari non si sarebbero mai dovuti incontrare: invece, dal loro incontro è nato un libro davvero importante». Un altro valido incipit – quello che nel gergo della carta stampata si chiama il “cappello” – sarebbe: «Un cronista che di nanotecnologie non sapeva nulla, ora ci ha addirittura scritto un volume di oltre 200 pagine». Magari, invece, qualcuno potrebbe farsi attirare da una frase apparentemente un po’ criptica: «Nell’era della globalizzazione, i vari rami delle scienze si compenetrano, venendo in soccorso l’una dell’altra: così sono nate le Nazioni Unite della Medicina». Infine, un bibliofilo si lascerebbe forse convincere da un’affermazione perentoria: «Ecco un libro in italiano che va assolutamente tradotto in inglese».
Nel dubbio, la cosa migliore è andare con ordine.
Nell’autunno di due anni fa, Mauro Ferrari viene invitato al seminario internazionale che lo studio Ambrosetti tiene sul lago di Como, dove ogni anno raduna i massimi esperti di vari settori. Ferrari, nato a Udine, ha le carte in regola per partecipare. Ha un curriculum importante ma molto particolare perché, all’inizio, non ha nulla a che vedere con la medicina. Nato ad Udine, si laurea in matematica a Padova e poi in ingegneria meccanica a Berkeley. La California è il primo capitolo della sua serie di via vai tra Italia e Stati Uniti: una spola da una parte all’altra dell’Atlantico che, però, all’epoca non lasciava ancora prevedere un salto di campo scientifico e professionale. Perché oggi questo ex matematico, in odore di Nobel, è Presidente e CEO del Methodist Hospital Research Institute di Houston nonché presidente della Alliance for Nano Health che ha sede sempre nella metropoli texana. Per dirla tutta: è tra i più grandi esperti mondiali di bioingegneria e di nanotecnologie biomediche.
A provocare il passaggio a una specializzazione così diversa, per di più in una sofisticatissima ed elitaria nicchia d’eccellenza della ricerca medica, è un evento doloroso. A soli 32 anni di età, Maria Luisa, la prima moglie che a Ferrari ha dato tre figli, muore. Di tumore, appunto. Nell’ingegnere-matematico scatta qualcosa. Vuole saperne di più, capire. Ma, soprattutto, vuole lottare. Da allora Ferrari si dedica anima e corpo alla battaglia contro il cancro. Che affronta con un approccio assolutamente originale: applicare le nanotecnologie alla medicina. Roba al limite della fantascienza, se non oltre: il nanometro, per intenderci, è pari a un milionesimo di millimetro. Impossibile da immaginare, al confronto il capello di un neonato è grande come una portaerei.
Oggi le ricerche del team guidato da Ferrari – matematici, chimici, biologi, ingegneri e medici coalizzati nella missione comune di sconfiggere il cancro – significano: ghiandole artificiali capaci di rilevare il cancro e somministrare autonomamente il medicinale; nanovaccini che risvegliano il sistema immunitario; diagnosi effettuate attraverso una semplice analisi delle proteine; robot chirurghi e sofisticati manichini-pazienti su cui fare pratica. Prima della commercializzazione dei farmaci ci vorranno ancora alcuni anni: si stanno conducendo gli esperimenti sulle cavie e poi ci vorranno le necessarie e severissime certificazioni. Ma la strada è stata aperta. Alla base del lavoro di Ferrari, concentrato soprattutto sulle metastasi, cioè per capirci i tumori recidivi e più letali, ci sono: una constatazione realistica e un’intuizione geniale. La constatazione, amara ma indiscutibile, è la seguente: «Con l’attuale chemioterapia solo una cellula di medicinale su 100mila raggiunge il bersaglio. Tutte le altre vanno a vuoto, si disperdono nell’organismo. E, rilasciando sostanze tossiche, fanno i danni che tutti conosciamo». Quindi, bisognerebbe riuscire a far agire il farmaco soltanto sulle cellule tumorali, senza intaccare e devastare le altre. Ed eccola, l’intuizione geniale: «Caricare il farmaco su nano-missili multistadio che colpiranno solo le cellule tumorali» spiega Ferrari. «Vogliamo verificare se e come le nano particelle possano trasportare nel sangue più nanomedicine contemporaneamente, da rilasciare a tempo debito, aggirando gli ostacoli e non infastidendo le parti sane del corpo. Insomma, l’obiettivo è: curare i pazienti con terapie sempre più personalizzate». L’idea, sostiene sorridendo il professore, l’abbiamo presa in prestito dal vicino centro spaziale di Houston, una conferma della globalizzazione e interconnessione delle scienze: «Grosso modo puntiamo a copiare quello che succede nelle imprese spaziali, dove i missili propulsivi abbandonano la navicella prima che questa con il suo carico raggiunga l’obiettivo». Geniale a pensarlo, d’accordo. Ma difficilissimo da realizzare: «Perché ogni rilascio deve proteggere le nanoparticelle dal rigetto dei suoi nemici naturali appostati nel sangue, ed evitare di intossicare cellule sane per colpire esclusivamente quelle malate con cocktail di farmaci, in dosi diverse per ciascun paziente».
Per evitare ostici tecnicismi, meglio affidarsi a Michele Cucuzza e alle sue parole semplificatrici ma entusiastiche, da neadepto conquistato alla causa. «Stanno preparando una specie di astronavi infinitesimali, fatte di ossido di silicio che è poroso: nei pori ci va il farmaco che, arrivato sul posto, può agire. Ultimamente, stanno provando anche a “foderare” le nano particelle artificiali con pezzi di membrana cellulare, per “ingannare” le cellule guardiane più aggressive, pronte ad attaccare ogni eventuale corpo estraneo».
Già, ma che cosa c’entra Cucuzza, nel cui lungo curriculum da giornalista non c’è alcuna specializzazione medica? C’entra perché quel giorno d’autunno sul lago di Como era stato invitato anche lui assieme ad altri reporter. Al termine dell’intervento di Ferrari, affascinato, lo avvicina. Cominciano a parlare. «Professore, ma Lei deve scrivere un libro!». «Non ho tempo. Anzi… perché non lo scrive Lei?». «Io? Ma non so nulla di medicina». «Non si preoccupi. Venga da me». Così Cucuzza prima va a Gagliato, minuscolo paesino calabrese in provincia di Catanzaro, meno di 600 anime, dove Ferrari era andato un giorno ad un convegno per poi innamorarsi del posto, comprarci casa per le vacanze e, da allora, organizzarci un appuntamento estivo di altissimo rilievo scientifico. Perfettamente in linea con il suo carattere: animo vagabondo, lo hanno chiamato lo Zlatan Ibrahimovic della ricerca medica, un fuoriclasse senza patria. Ma non chiamatelo “cervello in fuga”. Semmai: cervello in movimento. «L’Italia? Avevo trentaquattro anni, quando in America mi hanno offerto di diventare capo di un programma di ricerca dotato di un budget di dieci milioni di dollari, in tre anni, per sperimentare le nanoterapie, e condirettore di un dipartimento all’avanguardia, con più di cento persone. Se mi facessero una proposta del genere in Italia, sarei pronto a ritornare immediatamente». Non succederà, lo sappiamo tutti. Meglio, quindi, andarlo a trovare nel suo laboratorio in Texas. E annoverare Ferrari tra i tanti che si e ci fanno onore, fuori d’Italia. Così Cucuzza, dopo Gagliato, ha preso un volo per Houston: oltre un mese di full immersion. Da cui è nato il libro: Il male curabile (Rizzoli, pagine 234, euro 18). Sottotitolo: La sfida di Mauro Ferrari, il matematico italiano che sta rivoluzionando la lotta ai tumori. Un libro che, insistiamo, andrebbe tradotto in inglese, l’esperanto dell’era contemporanea. Per far sapere a tutti che c’è un italiano (ormai con il doppio passaporto) in grado di dare una speranza a chi ancora pensa che contro il cancro non ci sia nulla fare.