Sicuramente “aspra” quella stagione fu, visto che nel 1977 la spinta di un movimento che voleva dare la “scalata al cielo” si esaurì e divenne altro: rinunciò alla politica e alla dialettica per cedere alla fascinazione delle armi. Carlo Rivolta, giornalista prima di ‘Paese Sera’ e poi de ‘La Repubblica’, di quella stagione fu il ‘cronista’ per eccellenza, figlio lui stesso di quel movimento spazzato via dalla "geometrica potenza" dispiegata dalle Br a Via Fani con l’uccisione della scorta e il rapimento di Aldo Moro. E, a causa di quel divergere tra le “armi della critica” e la “critica delle armi”, pagò un prezzo altissimo. In linea del resto con uno degli assiomi del periodo storico: nessuna cesura tra pubblico e privato.
Rivolta morì piegato dall’eroina a 32 anni, all’epilogo di una crisi con il lavoro di giornalista e il suo giornale. Una dipendenza privata raccontata indirettamente dalle colonne di ‘Repubblica’ attraverso la sua descrizione di un fenomeno sociale e politico dilagante, mix di ripiegamento ideologico, solitudine e impossibilità di sopravvivere a un orizzonte ideale profondamente mutato. A lui, considerato tra le migliori ‘firme’ sul campo della sua generazione, De Lorenzis e Favale (entrambi giovani ‘colleghi’ della stessa testata nata nel 1976) dedicano «L’aspra stagione» (pp. 261, Einaudi, Euro 18) un libro che ricostruisce la sua vita e il movimento. O – se si preferisce – viceversa: tanto sono intrecciati l’una all’altro.
"E questa è la storia di un uomo – dicono in prefazione – che ha sognato e poi s’è svegliato. Un uomo che ha vissuto, creduto e capito, che ha scritto e raccontato. E che se n’è andato un attimo prima che la nave salpasse". Rivolta nasce professionalmente alla fine degli anni ’60, nel ’68’, prima con ‘Epoca’, poi con ‘Paese Sera’, un ‘unicum’ nel panorama dei giornali di sinistra. Si fa le ossa nella cronaca romana: quella che vede la piccola delinquenza da ‘arancia meccanica’, i sottoproletari delle periferie che finiscono come Pelosi con Pasolini. Ma anche la violenza politica che comincia a crescere: in primis il rogo di Primavalle (con i fratelli missini Mattei, carbonizzati vivi). E c’è lo sbaglio di incolpare gli ambienti neofascisti e non invece un commando di Potere Operaio. Poi la nascita di Radio Città Futura. Ecco infine il 1976 e ‘La Repubblica’: il ‘Fondatore’ (Eugenio Scalfari) lo assume "per la capacità di esplorare spazi ignoti…". "Ai tempi di ‘Paese Sera’ ha imparato – scrivono i due autori – che non bisogna mai perdere di vista il pubblico. Che non bisogna mai smarrire di percepirne interessi, necessità, urgenze".
Rivolta è perfetto per il disegno del quotidiano di Piazza Indipendenza (allora) di interpretare i ‘bisogni’ dei nuovi ‘pubblici’: nelle sue cronache (dalla cacciata del segretario della Cgil Luciano Lama dall’università da parte dei militanti dell’Autonomia Operaia), alle prime inchieste sul fenomeno droga, alla descrizione del mondo ‘fascio’ della capitale (Piazza Euclide e Piazza del Popolo), Rivolta pratica un giornalismo che Paolo Mieli (suo amico e collega) definisce "adesione a una realtà particolare". E la realtà di quel momento è marcata dalla inarrestabile militarizzazione del movimento e la pressione delle Br.
Rivolta si muove in questo magma: stigmatizza l’involuzione militarista, tanto da essere minacciato dalle Brigate Rosse, insieme ai colleghi Enrico Deaglio e Mario Scialoja, come "poveri mentecatti utilizzati dalla controrivoluzione". Il culmine è il rapimento Moro: è lui a firmare il pezzo in prima pagina il giorno dopo il rapimento ed è lui, insieme ad altri, a sposare in seguito la linea tratta per salvare Moro. ‘Repubblica’ no, il quotidiano e la sua direzione scelgono la fermezza. Da lì in qualche modo nasce la frizione: "Il quotidiano di Eugenio Scalfari – spiegano gli autori – pesa compiutamente la sua vocazione ‘repubblicana’ e ‘costituzionale’".
Il dopo – anche grazie ad un riposizionamento del giornale verso altri target – è un lento prendere le distanze da parte del giornalista: più si allontana più sale però la dipendenza dall’eroina. Tutto precipita nel momento in cui Rivolta – da buon ‘garantista’ – decide di assumere (per un numero e a rotazione con altri colleghi) la direzione di ‘Metropoli’, rivista vicina al movimento estremo fondata da Lanfranco Pace, Oreste Scalzone e Franco Piperno. Sono i tempi della scia dell’inchiesta del ‘7 aprile’, una forte scrollata giudiziaria contro i ‘contigui’ e i presunti ‘legali’ del terrorismo. Repubblica sospende il cronista: per alcuni non sarebbe che un atto passeggero, per lui é la fine di un rapporto. Il seguito non sarà nient’altro che un lento sfaldarsi, umano e professionale nonostante in mezzo ci sia, ancora, il racconto della tragedia di Vermicino e del piccolo Alfredo Rampi e la breve esperienza di ‘Reporter’. Rivolta è sempre più solo, come solo morirà, stroncato dall’eroina. In molti piangeranno il ‘cronista’ del ’77, ma soprattutto un grande giornalista.