Si chiamava Michele V., aveva 28 anni, arrestato per furto, doveva scontare un anno e sei mesi di carcere. Era detenuto a Foggia. Lo trovano immobile, la morte è sopraggiunta nel sonno, i medici parlano di causa ’naturale’. Michele si dice fosse un tossicodipendente. Se è così il carcere era l’unico posto dove non doveva stare.
Quasi nelle stesse ore, Alina Diachuk, una ragazza ucraina, si toglie la vita. Condotta in una stanza del commissariato di Villa Opicina, frazione di Trieste, dove sono trattenuti temporaneamente gli stranieri in attesa di essere accompagnati alla frontiera, Alina si impicca col cordino della sua felpa.
Il primato di carcere dove si muore di più è il Marassi di Genova: cinque decessi (uno per suicidio, uno per infarto e gli altri da accertare); segue Regina Coeli a Roma (tre morti, un detenuto del centro clinico deceduto per malattia, uno colpito da infarto e un ultimo stroncato forse da overdose).
Le cause di questa catastrofe sono il sovraffollamento carcerario, leggi come la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini; e il provvedimento ’salva-carceri’ si è rivelato un pannicello caldo: solo 312 detenuti in meno rispetto alla data di entrata in vigore della legge e, in totale, 21mila detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili.
La Puglia è la regione con il più alto tasso di sovraffollamento di detenuti nei penitenziari (188 per cento), seguita da Lombardia (174 per cento) e Liguria (168 per cento). Il record spetta però alla casa circondariale di Brescia Canton Monbello, con un eccesso di detenuti rispetto a quelli che potrebbe regolarmente contenere del 271 per cento. La Campania, invece, è quella con più imputati dietro le sbarre: su un totale di 7.983 detenuti, al 31 marzo di quest’anno, quelli imputati sono oltre il 51 per cento. E ci si limita, come si vede, alla sola situazione nelle nostre prigioni.
Intanto dal Consiglio d’Europa maglia nera all’Italia, considerata il Paese più inadempiente dal punto di vista del rispetto delle sentenze della Corte Europea per i diritti dell’uomo, relative soprattutto alla lentezza dei processi e al ritardo nei risarcimenti. Addirittura qualche sentenza – relativa alle espulsioni – non è stata eseguita; e si esprime grande preoccupazione per importanti problemi strutturali che il nostro Paese non riesce a superare. Per esempio, ci sono sentenze emesse già cinque anni fa che non sono state ancora eseguite. Solo quest’anno oltre 2500 sentenze non sono state eseguite, un quarto del totale. Siamo il Paese europeo più inadempiente; primeggiamo, nella classifica negativa, con la Turchia e la Russia, che ne hanno la metà.
Anche le somme da risarcire sono aumentate rispetto all’anno precedente. Nel 2010 lo Stato ha dovuto indennizzare cittadini che hanno vinto il ricorso alla Corte Europea per oltre sei milioni di euro. Nel 2011 la cifra è salita a otto milioni e mezzo. La Corte, inoltre, ha già condannato più volte l’Italia per il malfunzionamento dell’unico rimedio, la legge Pinto, finora fornito agli italiani per rivalersi contro lo Stato per la durata eccessiva dei processi. I giudici di Strasburgo hanno stabilito che l’Italia risarcisce troppo poco e in ritardo. Attualmente pendono in attesa di esecuzione 132 casi solo per il non rispetto della legge Pinto.
Le cifre, del resto parlano chiaro. I processi per ingiusta detenzione o per errore giudiziario sono oltre 2000 all’anno, per i quali nel corso del 2011 lo Stato italiano ha riconosciuto risarcimenti stimati in 46 milioni di euro. La media è di quattro anni di attesa per le cause civili, sette anni per quelle penali; sei milioni circa di processi civili costano all’Italia 96 miliardi di euro in termini di mancata ricchezza.
Il Centro Studi di Confindustria stima che smaltire questa enorme mole di pratiche frutterebbe alla nostra economia il 4,9 per cento del Pil, ma basterebbe abbattere anche del 10% i tempi di risoluzione delle cause per guadagnare lo 0,8 per cento del Pil l’anno. Secondo il rapporto ’Doing business 2012’ della Banca mondiale, i difetti della nostra giustizia civile ci fanno perdere l’1 per cento di Pil l’anno. La ’giustizia lumaca’ costa circa 371 euro ad azienda e i ritardi costano alle imprese circa 2,3 miliardi di euro l’anno. Il costo medio sopportato dalle imprese italiane rappresenta circa il 30 per cento del valore della controversia stessa, a fronte del 19 per cento nella media OCSE. Per recuperare un credito: in Italia occorrono circa 1.210 giorni, in Spagna 515, in Cina 406, 399 in Inghilterra, 394 in Germania, 331 in Francia, 300 in Usa. Il nostro Stato spende per la giustizia circa 70 euro per abitante a fronte dei 56 della Francia, dove la durata media di un processo civile è della metà. La spesa pubblica complessiva per i tribunali e per le procure supera i 7,5 miliardi di euro l’anno ed è la seconda più alta in Europa, dopo quella della Germania.
Infine il capitolo prescrizioni. Sono circa 500 al giorno, 165mila prescrizioni annue. Costano allo stato 84 milioni di euro l’anno. Nel solo tribunale di Bologna, nel corso di un’ispezione ordinaria disposta dal Ministero della Giustizia si scoprono 3.300 fascicoli di indagine chiusi a chiave in un armadietto e dimenticati. I reati contestati in quei procedimenti, tra cui furti e ricettazione, reati ambientali sono tutti caduti in prescrizione. Solo a Bologna? E quanti altri armadi?
*Precedentemente pubblicato su www.lindro.it