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February 19, 2012
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L’inchiesta: Ma come finì Giuliano?

La verità è che la fine di Salvatore Giuliano – e soprattutto l’ultimo anno della sua vita – rimangono un mistero di Stato

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Il corpo di Salvatore Giuliano nel film di Francesco Rosi

Il corpo di Salvatore Giuliano nel film di Francesco Rosi

Time: 8 mins read

Una nuova versione della morte del bandito Salvatore Giuliano trovato morto la mattina del 5 luglio del 1950 a Castelvetrano nel cortile dell’avvocato Di Maria, arriva da un libro di Michele Antonio Crociata, “Sicilia nella Storia” (Flacciovio 2012). Stando a questa ricostruzione, Giuliano non sarebbe stato ucciso dal cugino Gaspare Pisciotta, ma da un’altra persona e, precisamente, dal bandito Nunzio Badalamenti.

L’eliminazione del ‘re di Montelepre’ non sarebbe avvenuta a Castelvetrano, ma dalle parti di Monreale, e precisamente a Villa Carolina. La nuova tesi non è campata in aria. Anzi. Se non altro perché Villa Carolina era un luogo molto frequentato da Giuliano. E’ lì che il bandito, spesso, incontrava personaggi altolocati dello Stato repubblicano nascente – politici e, forse, anche uomini delle forze dell’ordine del tempo – e anche importanti rappresentanti dell’Arcidiocesi di Monreale.

Su Giuliano ne sono state dette e scritte tante. Per lo scrittore Mario Puzo – che comunque ci ha consegnato una verità romanzata – Giuliano non sarebbe morto. Al suo posto sarebbe stato ucciso un sosia.

Mentre il bandito sarebbe emigrato negli Stati Uniti d’America. Tesi, questa, della quale si dice convinto lo storico Giuseppe Casarrubbea. Ed è, questa, una tesi da prendere con molta attenzione. Per due motivi. In primo luogo, perché Mario Puzo era un profondo conoscitore della malavita americana e siciliana. L’autore del ‘Padrino’, insomma, era bene informato. E bene informato è anche Giuseppe Casarrubbea, che ha avuto accesso a un’infinità di documenti riservati americani (è questo il secondo motivo per il quale la tesi dell’uccisione di un sosia al posto di Giuliano non va sottoalutata).

Di recente, com’è noto, la Giustizia ha fatto riesumare il cadavere di Giuliano (o del suo sosia?) dal cimitero di Montelepre per avviare indagini sul dna. I risultati, finora, sono controversi. La tesi del sosia non sarebbe stata provata.

Ora arriva la versione del professore Crociata: Giuliano, secondo la nuova interpretazione, sarebbe stato ammazzato a Villa Carolina.

Tutte le tesi presentano qualcosa di vero. Perché tutte le tesi sulla morte del bandito Giuliano hanno precisi legami con la storia di quegli anni torbidi.

La verità è che, a distanza di tanto tempo, la fine di Giuliano – e soprattutto l’ultimo anno della sua vita – rimangono un mistero. Chi scrive vuole offrire ai propri lettori tre elementi di riflessione. Il primo elemento di riflessione riguarda il rapporto tra Giuliano e il Movimento separatista. Su questo rapporto sono state scritte tante cose, spesso inesatte. Forse una delle fonti meno inquinate per ricostruire questi legami sono gli atti della prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. E’ la commissione parlamentare, per intendersi, che si insedia nel 1962 e conclude i lavori nel 1976. Non tutti hanno avuto la fortuna di scorrere questi volumi, che sono tanti. Eppure vi posso assicurare che, soprattutto dalla lettura degli atti – spesso documenti apparentemente insignificanti – si ricavano possibili deduzioni che vanno in controtendenza rispetto alle tesi ufficiali. Sulla strage di Portella delle Ginestre, ad esempio, ci sono elementi che si avvicinano, per molti versi, alle conclusioni che è possibile leggere negli atti del processo di Viterbo. Là dove si dice che a sparare sulla folla inerme, la mattina dell’1 maggio del 1947, non sono stati gli uomini appostati sulle alture che sovrastano la piana di Portella, ma personaggi mescolati in mezzo alla folla. I colpi che provocano morti e feriti non

vengono sparati dall’alto, ma in orizzontale. Si deduce, così, che, quella mattina, Giuliano e la sua banda vengono inviati sulle alture del Pelovat per coprire un’operazione stragista. Organizzata da chi? E perché?

Forse dagli americani e dalla mafia di Monreale. Di questa strage erano informati alcuni personaggi delle istituzioni. Tra questi, di certo, il capo della Polizia in Sicilia dell’epoca, Ettore Messana. Che verrà in un certo senso scoperto da Girolamo Li Causi, all’epoca leader del Pci siciliano. Qualche dopo la strage, quando a Palermo giungevano notizie frammentarie su incidenti avvenuti a Portella (allora c’erano solo i telefoni), Li Causi si catapulta nella sede della Polizia. Chiede a Messana: “Che è successo?”. Messana, forse anticipando un copione che avrebbe dovuto recitare qualche ora dopo, risponde.

“Una strage a Portella. La banda Giuliano…”. “E lei come fa a sapere che a sparare è stato Giuliano?”, gli chiede Li Causi.

Gli atti del processo di Viterbo – ma anche le deduzioni che si ricavano leggendo attentamente atti e documenti della prima commissione antimafia – ci dicono che a sparare non furono gli uomini appostati sulle alture del Pelovat. E sulle alture c’erano Giuliano e la sua banda. Che, con molta probabilità, si resero conto di essere stati giocati. Da chi? Forse da qualche uomo politico che Giuliano aveva incontrato, qualche giorno prima, a Sagana, sempre dalle parti di Montelepre. Un politico che Giuliano proverà ripetutamente ad ammazzare, senza riuscirci. I politici sapevano in anticipo che l’1 maggio, a Portella, ci sarebbe stata la strage? Probabilmente, sì. Tant’è vero che quella mattina – ed era l’ maggio, una data importante – di politici, a Portella delle Ginestre, guarda caso, non c’erano. Alcuni non andarono di proposito. Ad altri – quelli che non sapevano nulla – venne impedito di andare. Lo scrittore Michele Pantaleone sosteneva che la politica siciliana era informata degli eventi che sarebbero accaduti.

A chi è servita la strage di Portella? E’servita per fermare le sinistre che, alle prime elezioni regionali del 1947- l’insediamento del primo Parlamento siciliano ad Autonomia appena conquistata – ottennero la maggioranza  per molti versi vera, ha comunque consentito alla sinistra di radicarsi, per lunghi decenni, in tanti centri medi e piccoli di questa parte della Sicilia, da Partinico a San Giuseppe Jato, da San Cipirello a Piana degli Albanesi, per citarne alcuni.

Forse, però, è arrivato il momento di fare chiarezza sui rapporti tra Giuliano e i separatisti. I rapporti tra il bandito e gli indipendentisti ci furono. Sia con l’ala del movimento che incarnava gli interessi degli agrari, sia con la parte popolare del Movimento separatista rappresentata da Antonio Canepa e dall’avvocato Antonino Varvaro.

I rapporti tra Giuliano e i separatisti sono sempre stati trattati in modo superficiale. In quegli anni c’era un preciso interesse da parte delle forze del cosiddetto ‘Arco Costituzionale’, Dc e Pci, in testa: mettere in cattiva luce gli indipendentisti siciliani.

Che, ricordiamolo, allora erano ancora molto radicati nell’immaginario dei siciliani. Agli indipendentisti sono state attribuite, nella vicenda Giuliano, responsabilità che, con molta probabilità, non avevano.

Questo è stato fatto da quei partiti che, alla fine, sono stati tra i principali responsabili del tradimento dello Statuto autonomistico siciliano. Tutto ciò non fa venire meno le responsabilità di alcuni esponenti del separatismo, comprese le collusioni con la mafia. Ma sarebbe un grave errore – ancora oggi – confondere la buona fede di personaggi come Antonio Canepa, Concetto Gallo e Attilio Castrogiovanni – con l’ala del separatismo che difendeva gli interessi dei latifondisti o, peggio, che colludeva con i mafiosi. Fatta questa differenza, ci permettiamo di ricordare ai nostri lettori altri due elementi. Un libro imperdibile di Giuseppe Montalbano, esponente di spicco del Pci siciliano degli anni ‘50, ‘60 e ‘70. Poi isolato perché troppo ‘eretico’ rispetto alle indicazioni del suo partito. Il libro in questione s’intitola “Mafia, politica e storia”. Dove troverete tante verità sul ‘caso’ Giuliano e sulle collusioni della politica con la mafia. Compresi certi personaggi della sinistra siciliana.

Il secondo elemento lo trovate nella seconda relazione di minoranza ai lavori conclusivi della prima commissione antimafia. I lavori di questa commissione, come già ricordato, si conclusero nel 1976. Le forze politiche si divisero. I democristiani e altri partiti (Psi e laici) presentarono la relazione di maggioranza. Poi vennero presentate due relazioni di minoranza: la prima del Pci, scritta da Pio La Torre; la seconda dell’Msi, scritta da Giorgio Pisanò. Sono tre relazioni interessantissime e, per certi versi, ancora attuali. La relazione di maggioranza contiene spunti interessanti. Compresa qualche autocritica da parte di alcuni democristiani. Nella relazione del Pci c’è il grande coraggio di Pio La Torre, che sulla mafia di Palermo – e sulle connessioni tra mafia e borghesia palermitana e siciliana – scrive pagine memorabili.

E c’è – ed è veramente particolare – la già citata seconda relazione di minoranza scritta da Pisanò. Che sulla vicenda Giuliano dà una tesi tutta sua, ma non per questo meno credibile. Anche per Pisanò ad ammazzare Giuliano non è stato Pisciotta. A sparargli sarebbe stato un “uomo dal berretto floscio”. Un personaggio mandato chissà da chi. Un uomo arrivato da un paese un po’ distante da Castelvetrano: Corleone. Il suo nome era Luciano Leggio detto Liggio. Ma questa è un’altra storia.

Già pubblicato su www.linksicilia.it

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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