Falsari di parole, becchini di testimonianze, profanatori di tombe". La filosofa Donatella Di Cesare sceglie accuratamente i termini per descrivere il negazionismo. Lo fa in un libro denso e profondo [«Se Auschwitz è nulla», pp. 125, Il Melangolo, Euro 8] nel quale passa in rassegna un fenomeno di dimensioni oramai internazionali, "radicato e diffuso anche in Italia, dove gli adepti" sono "andati costruendo il luogo della loro negazione nell’ombra propizia degli ultimi decenni".
Vedere negare lo sterminio degli ebrei europei non è poi così difficile: basta consultare libri, periodici, cercare sul web (soprattutto) e qualche volta anche frequentare le aule dove insegnano alcuni professori. Spesso i negazionisti ricorrono al tema della libertà di pensiero per rivendicare legittimità di circolazione alle loro idee: argomento che rende spinoso ad esempio l’assumere provvedimenti a contrasto. Basti soltanto pensare al dibattito infinito in Italia sulla possibilità di una legge che lo sancisca penalmente, nonostante in altri paese europei esista già da tempo.
Ma il negazionismo è un’“opinione” come un’altra? Nel suo libro – che, a poca distanza dal Giorno della Memoria del 27 gennaio, è stato presentato alla Camera dei deputati con gli interventi del presidente Gianfranco Fini, del ministro Andrea Riccardi, di Angelino Alfano, Paolo Meli, Giovanni Maria Flick e Riccardo Pacifici – Donatella Di Cesare scioglie una dopo l’altra le stratificazioni ideologiche a mascheramento di una verità semplice: il nesso di complicità tra annientamento e negazione rende "problematico il concetto di opinione".
Perché, in realtà, i negazionisti sono i diretti eredi di Hitler e intendono portare a compimento il suo progetto politico: quei "profanatori della cenere" perseguono "la verità" di Hitler. Del resto hanno avuto un precedente solido nei nazisti stessi che dal 1944 in poi – all’approssimarsi della sconfitta definitiva – cominciarono a cancellare ad Auschwitz le tracce dei loro crimini bruciando gli elenchi dei convogli dei deportati, così come nel 1945 fecero saltare le camere a gas e i forni crematori.
"E’ lì dove, dove ogni traccia potrebbe sparire, che il maestro della negazione – scrive Di Cesare – si prende la briga di ultimare il lavoro dei nazisti. Per il negazionista l’incinerazione di quell’Olocausto non è stata portata a termine. Il fuoco cova ancora".
L’autrice ripercorre così il filo rosso che lega tra loro i molti esponenti di questa ‘opinione’: da Faurisson, ai suoi epigoni, fino al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Una negazione che partendo dal passato si proietta nel futuro per compiere definitivamente l’opera: l’hitlerismo intellettuale non è stato ancora sconfitto, ammonisce Di Cesare. Fare di Auschwitz un esempio di “indicibilità” significa perdere la lotta contro chi nega: perché significherebbe relegarlo "nel dominio del mistero".
"L’Europa, che ha respirato nell’indifferenza i fumi dei forni della ‘soluzione finale’, rischiando di sprofondare, ha una responsabilità ulteriore, il peso – conclude l’autrice sostenendo così la necessità di una legge contro il negazionismo – di un passato da coniugare al futuro, l’impegno di dire contro chi tenta di negare, di dichiarare crimine la negazione per non lasciare che il mondo scivoli nell’abisso del nulla".
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La Shoah corre tre pericoli, o meglio tre possibili “abusi di memoria”: la negazione, la banalizzazione e la sacralizzazione. L’autrice, Valentina Pisanty – che insegna semiotica all’Università di Bergamo – mette in fila una riflessione a tutto campo su un tema di cui in un momento in cui si celebra la dodicesima edizione del “Giorno della memoria”, istituito per legge nel 2000, dopo una gestazione di quattro anni dalla presentazione della proposta da parte del deputato Furio Colombo [«Abusi di memoria», pp. 152, Mondadori, Milano, 2012, Euro 16].
Va subito chiarito che per Pisanty la Shoah occupa un ruolo centrale nella coscienza contemporanea e che non potrebbe
essere altrimenti che la narrazione dello sterminio è troppo potente per essere tenuta a distanza. Per la studiosa, tuttavia, il fine della legge è, o dovrebbe essere, non tanto "la retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente", quanto piuttosto "prescrivere agli europei (il Giorno della Memoria si svolge anche in molti altri paesi dell’Europa, ndr) in generale e agli italiani in particolare, il compito di studiare ciò che in passato si era preferito non guardare…".
"La Shoah – spiega – non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso, frutto di ‘incosciente faciloneria’, piuttosto che di una reale e diffusa intenzione omicida… ma un crimine anche italiano che per decenni gli italiani hanno spezzato via a colpi di amnistia e di amnesia". Restituita alla Storia, la Shoah – secondo Pisanty – deve evitare i tre ‘abusi’: "per i negazionisti, desiderosi di dimostrare che la lobby ebraica tiene in scacco la comunità internazionale con il ricatto della Shoah, ciò che andrebbe rimosso dalla memoria collettiva è l’idea stessa dell’avvenuto genocidio". "I banalizzatori invece – prosegue – adeguano la rappresentazione della Shoah a formati narrativi ipercollaudati per rendere la memoria più facilmente assimilabile e commercializzabile. Oppure – prosegue – spogliano la Shoah dei suoi attributi specifici allo scopo di equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo secondo la logica per cui se tutti sono colpevoli allora nessuno lo è per davvero".
E i sacralizzatori? A giudizio di Pisanty loro sottraggono la Shoah "dalla serie degli eventi storici per proiettarla in una dimensione ‘altra’, metafisica e metastorica, in cui la memoria viene isolata, riverita e protetta dalle incursioni indesiderabili, eventualmente allo scopo di rivendicare un monopolio sulla scelta degli usi a cui essa può legittimamente dare adito".