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December 12, 2010
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Mutilazioni genitali femminili: la lotta continua

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 6 mins read

Lo scorso settembre Emma Bonino a New York si era dichiarata ottimista sulle possibilità che all’Assemblea Generale dell’Onu, entro la fine dell’anno, l’Italia e l’Egitto, con un gruppo di altri paesi africani, riuscissero a presentare una risoluzione per bandire le mutilazioni genitali femmini (FGM). Questa settimana la vicepresidente del Senato e leader radicale è stata nuovamente a New York per cercare di spingere avanti la risoluzione, ma al Palazzo di Vetro persistono delle divisioni tra alcuni paesi africani. I tempi sembrano allungarsi? L’Italia non molla la presa.

La senatrice Bonino l’abbiamo incontrata nella sede newyorkese di “Non c’é pace senza giustizia”, l’organizzazione da lei fondata e che, con Nessuno Tocchi Caino, è in prima fila nelle battaglie dei radicali sui diritti umani all’Onu.

 Senatrice Bonino, a che punto siamo? Il traguardo sembrava così vicino…

«Io continuo a rimanere determinata, come lo sono tutte le attiviste del gruppo interafricano. E lo sono anche perché la recente visita a New York di Khadi Koita, per pubblicizzare il suo libro appena uscito anche in inglese (“Blood Stains: a Child of Africa Reclaims Her Humanr Rights” UnCUT/Voices Press 2010) ha avuto un grande effetto sulle missioni permanenti qui dell’Onu, che sono rimaste piuttosto colpite dalla biografia di Khadi, una delle nostre attiviste più esposte. Da quanto sono riuscita a capire la risoluzione ci sarà, ma ci sono conflitti interni tra gruppi di paesi e probabilmente non ce la faremo per dicembre, quando inoltre ci sarà un’altra risoluzione a cui teniamo molto, quella sulla pena di morte che andrà in aula il 20 dicembre. Io sono fiduciosa delle consultazioni che sono in corso tra vari paesi africani, guidati dall’Egitto e dal Burkina Faso, con l’assistenza della missione italiana all’Onu che resta sempre coinvolta. Penso che finita la plenaria così densa di lavori, nei mesi di gennaio-febbraio si riuscirà ad avere un consenso per quella sulle FGM, si potrà pensare ad un dibattito ad hoc in Assemblea Generale».

 

Ma ci sono problemi di sostanza, qualche paese si starebbe tirando indietro oppure, come capita spesso per i documenti Onu, si tratta solo di cambiare qualche termine nella risoluzione finale da presentare…

«È chiaro che ci sono posizioni diverse, altrimenti alla risoluzione ci saremmo arrivati anni fa, il problema è spinoso. Da una parte c’è un gruppo di paesi che ormai affronta il problema dal punto di vista di violazione dei diritti umani, oltre alle conseguenze sanitarie terribili che tutti sappiamo. Un altro gruppo di paesi invece insiste a volerlo affrontare solo dal punto di vista sanitario o sociale, con l’obiettivo anche della messa al bando, ma come arrivare alla risoluzione da mettere ai voti ci sono due ‘presentazioni’ diverse che ancora necessiteranno, come sempre nei documenti Onu, di trovare un loro equilibrio. Non c’è differenza nell’obiettivo, ma nel principio. Molti hanno infatti paura di creare dei precedenti. Per esempio c’è stata resistenza ad andare in Assemblea Generale da parte di paesi che non hanno le mutiliazioni genitali femminili, come lo Zambia per esempio, ma che sono stati resistenti perché lo vedevano come un precedente, mentre la tendenza, ahimé sempre più evidente, almeno qui all’Onu, è che i diritti umani si discutono a Ginevra, la questione donna si discute nella conferenza sullo stato delle donne, ma l’Assemblea generale rimane per gli ‘alti’ temi di politica…».

 

Cioè alcuni paesi non vogliono che una risoluzione abbia il peso politico del voto dell’Assemblea Generale. Ma nel non voler creare ‘precedenti’, ci sarebbe anche l’azione dei paesi più importanti, come la Cina?

«È chiaro che dobbiamo anche considerare il poco entusiasmo di alcuni paesi pesanti, che stanno sullo sfondo. Non è che si esprimano direttamente ma è chiaro, l’ho capito, che il clima qui è molto resistente sul dare ai diritti umani la solennità dell’Assemblea Generale».

 

Eppure il 20 dicembre si torna a votare sulla pena di morte.

«E infatti molti lo vedono come un qualcosa che è sfuggita di mano, molti lo chiamano il blitz italiano. Come blitz è stato piuttosto lungo, sono anni che ci lavoriamo. Ma in alcuni incontri già qualcuno mi ha detto, ‘avete già fatto il blitz sulla pena di morte, ora su questo ci pensiamo un attimo…’ Ma sul tema di fondo delle mutilazioni c’è accordo, ormai ognuno si rende conto che non si tagliano e cuciono le donne, nell’anno 2010 e mai. Però c’è questa varietà di sensibilità non entusiaste…».

 

Invece la sensibilità dell’opinione pubblica aumenta, in Italia il suo intervento alla trasmissione tv “Vieni via con me” ha dato la possibilità a milioni di italiani di conoscere la tortura delle mutilazioni sessuali femminili…

«Anche nella stampa internazionale. Basta guardare oggi un giornale dell’Uganda, mettono il problema in prima pagina. O ecco un giornale del Kenya, che mette l’elenco dei villaggi dove le bambine saranno mutilate. Vuol dire che il muro del silenzio è caduto. Tutto questo fa valanga…».

 

Quindi diventerà sempre più difficile rifiutare il fatto che si tratti di una questione di diritti umani. La foto in quel giornale è terrificante, una bambina disperata è tenuta ferma mentre un uomo ha in mano una lametta….

«Certo. Vedendo un’immagine di denuncia del genere nella prima pagina del giornale più diffuso ugandese, non si trova più nessuno che si azzardi a voler sostenere che si tratti solo di una tradizione culturale».

 

Lei ha iniziato da commissario europeo ai diritti umani questa battaglia ormai dieci anni fa. Si aspettava di arrivare così vicina al traguardo?

« L’obiettivo allora mi pareva molto ambizioso, perché se ne parlava talmente poco, c’era una tale resistenza… Finché abbiamo trovato delle ministre e delle first lady così determinate che si sono veramente esposte nel dire, ‘sì rispettiamo le nostre tradizioni ma questa non è una bella tradizione’ e hanno preso la leadership per abolire queste sofferenze inutili».

 

E così il 15 novembre è arrivato quell’appello pubblicato sull’International Herald Tribune, con accanto alla sua firma, anche quelle di tante ministre africane, first lady, premi nobel internazionali…

«E le firme continuano ad arrivare da tutto il mondo. C’è ancora del lavoro da fare, però ormai ci siamo».

 

All’Onu ha appena partecipato anche ai lavori sulla Corte penale di giustizia internazionale, altra battaglia iniziata anni fa dai radicali, in cui avete discusso di “justice rapid response”.

«Nel corso delle attività della Corte penale internazionale, tra alti e bassi, si è verificato quello che non avevamo previsto nella statuto. E’ importante quando le istituzioni riconoscono di aver dimenticato qualcosa e quindi si attivano per colmare questo buco. Come già Non c’è pace senza giustizia aveva fatto notare da tempo, a livello internazionale non c’era un albo di personale internazionale professionalmente preparato e pronto a partire per raccogliere le prove. Quindi Non c’è pace senza giustizia si è resa conto che quando si tratta di raccogliere le prove non c’era gente disponibile a partire in short notice. Quindi siamo riusciti a convincere una serie di stati, alla riunione c’erano circa 50 paesi interessati al progetto. Abbiamo già avuto importanti interventi, in Kenya, ad Haiti e faremo un nuovo training in Qatar, di gente che conosce il diritto internazionale, conosce come raccogliere le prove e soprattutto sa come proteggere i testimoni. Abbiamo adesso un albo di 80 persone qualificate che parlano diverse lingue, e mi sembra che ci sia molto determinazione da parte di tutti i paesi partecipanti».

 

Ci racconti questo passaggio cruciale del 20 dicembre in Assemblea Generale della risoluzione sulla pena di morte, in cui si cerca di avere ancora più paesi a favore…

«La risoluzione iniziale prevedeva un aggiornamento ogni due anni. Nessuno Tocchi Caino in questo momento è in Ghana e sta andando in Sierra Leone. Il trend di paesi che sono in moratoria de facto e in moratoria legale sta aumentando. Ma è importante anche che aumentino i voti qui all’Assemblea Generale dell’Onu. E quindi una delegazione del Partito radicale transnazionale, con il senatore Marco Perduca e l’on. Elisabetta Zamparutti, viaggia in preparazione della risoluzione del 20. Non ci sono problemi per la maggioranza, anzi si spera che avremo qualche paese in più. Ma dai giri che ho fatto in questi giorni, la pena di morte resta un tema molto sensibile per molti paesi».

 

Qualcuno proverà a mettere il bastone tra le ruote della risoluzione?

“Ci proveranno, ma anche noi siamo diventati esperti di procedura onusiana”.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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