La caduta del Governo Draghi è stata segnata, in via primaria, dalla disarmonia politica delle forze di maggioranza sulla questione del reddito di cittadinanza.
Siamo giunti alle elezioni con non poca tensione e fatica. Il pomo della discordia, come detto, è stato quel famoso accordo tra Lega e Movimento 5 Stelle trasfuso poi in legge.
Ad oggi c’è una netta e diversa visione delle cose sul tema. Diversa visione radicalizzatasi, appunto, sul reddito di cittadinanza benché votato proprio dalla Lega e dal Movimento grillino nel primo Governo Conte (per giunta inserendolo nel “Contratto di Governo”).
Ma chi ha partorito quel provvedimento oggi fa i conti con l’evidenza fallimentare rispetto al reinserimento lavorativo, ma anche con l’impossibilità concreta della eliminazione dello strumento da un giorno all’altro.
L’ultima seduta al Senato, prima delle dimissioni di Draghi, ha fatto emergere una contrapposizione sopraggiunta tra Lega e M5S: i primi a favore della revisione dello strumento, i secondi per il suo mantenimento (con relativo rafforzamento).

Eppure Draghi, sempre in Senato, aveva delineato lo spirito del suo vademecum provando fino all’ultimo una mediazione affermando che “Il reddito di cittadinanza è una misura importante per ridurre la povertà, ma può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro”.
Ebbene, siamo a ridosso del 25 settembre, giorno in cui il Paese è chiamato ad esprimersi in merito al futuro Parlamento. Il reddito di cittadinanza rimane il punto nevralgico della discussione elettorale tra abolitori, bollitori, conditori politici.
A prescindere da come andrà c’è però da considerare l’esistenza implicita di una “agenda del dovere” a cui far fronte. Quel dovere che impone di capire che il reddito di cittadinanza è un piatto condito di obbiettivi non raggiunti.
Cambiare paradigma può esser utile (si spera). Metodologicamente poniamoci una domanda senza fuggire dal problema. Lo strumento è stato pensato per cercare lavoro tramite i navigator; ciò significa confinare i percettori al solo impiego da lavoro dipendente? Sì

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È questa una delle crepe del come sia stato ideato lo strumento. Non è stato pensato per recuperare anche le partite iva medio-piccole. Per giunta c’è una fetta delle imprese attive del Paese che offre posizioni lavorative senza trovare figure adatte; altra fetta delle imprese attive, invece, non può offrire alcunché (crisi economica, incidenza fiscale, ecc., fanno la loro parte).
Allora, sempre per cambiare paradigma, non è che forse sia la volta buona per ripensare la normazione e le politiche del lavoro (che non sono solo per il lavoro dipendente) al fine di recuperare e/o riabilitare, nel più breve tempo possibile, le ex partite iva (tra cui maestranze, artigiani, ecc.) così generando nuove chance di reinserimento lavorativo per i percettori del reddito di cittadinanza?
Salvo l’abrogazione, il Paese non può permettersi uno strumento “cuscino” invece di essere “cuscinetto”. Formazione e compensazione salariale vanno considerate, quantomeno, nel breve-medio termine finché la ripresa economica e la crescita non saranno ottimali.
C’è una sola parola d’ordine se si vuole salvare il sistema-Paese: nuovi contribuenti. Servono. È così palese.