Generale Camporini; se per una ipotesi, al momento irrealistica, i 27 paesi dell’Unione Europea riuscissero a unificare tutte le loro Forze Armate, che peso militare, strategico e soprattutto politico avrebbe sullo scacchiere internazionale un esercito unico del Vecchio Continente? Sarebbe in grado di dialogare alla pari con i “nuovi” Stati Uniti di Donald Trump?
Il generale Vincenzo Camporini, Capo di Stato Maggiore della Difesa dal 2008 al 2011, non esita. Con un sorriso risponde: “Non servono tutti i 27 paesi. Ne bastano cinque: Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Polonia. E il loro peso sarebbe, sì, in grado di farsi ascoltare e di valere agli occhi di Washingto”.
Camporini ha parlato alla conferenza che la Nato Defense College Foundation, presieduta dall’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo consigliere diplomatico di vari ministri della Difesa e vicesegretario generale della Nato, ha organizzato al Circolo del Ministero degli Affari Esteri. Titolo che già ipotizza un impegno politico: “Nato e UE: pilastro europeo dell’Alleanza Atlantica”, sottotitolo: “Politica di difesa e ruolo dell’Italia per la sicurezza internazionale”.
Sala piena di addetti ai lavori: diplomatici, analisti, consulenti militari. «Il tema della difesa europea è tornato al centro dell’agenza strategica dell’Unione Europea» premette Minuto Rizzo. «Soltanto dieci anni fa non avevamo questi problemi». E perciò, per capire che cosa fare per consolidare una capacità collettiva di prevenzione e risposta alle crisi, soprattutto alla luce dei cambiamenti delle politiche di Washington, Minuto Rizzo ha chiamato oltre al generale Camporini alcuni dei principali esperti del settore: Andrea Romussi, capo dell’Ufficio Nato per le questioni di sicurezza e strategico-politico-militare del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale; Andrea Gilli, consulente senior del ministero della Difesa e Karolina Muti, ricercatrice senior del programma “Difesa, sicurezza e spazio” dello IAI, l’istituto affari internazionali.
Dai loro interventi e, poi, dalle domande dal pubblico emerge chiaramente la preoccupazione. Nessuno si nasconde il rischio che venga a mancare l’ombrello americano sotto il quale in Occidente almeno due generazioni del dopoguerra pensavano di essere al sicuro. «Il futuro è davvero incerto» sintetizza Romussi. Che però indica una strada: “I militari e i politici sanno bene che la Nato ha una straordinaria capacità militare. Quello che serve, quindi, è riuscire a creare una massa critica per convincere l’opinione pubblica europea. Sono prevedibili le proteste per gli aumenti delle spese militari, con il tetto da alzare dal 2 al 5 per cento dei bilanci statali”. E poi ci sono divergenze di fondo su come guardare al futuro. I paesi geograficamente più vicini alla Russia i cui timori sono comprensibili hanno fretta: nel giro di tre anni vorrebbero il riarmo. Quelli più a occidente hanno una visione a più lunga gittata.
Ma i problemi sono anche altri. “Al momento mancano una serie di basi, sia di tecnologia sia di competenze” avverte Andrea Gilli. E le spese attuali per la difesa sono troppo squilibrate: il 70 per cento va agli stipendi del personale. Soltanto il resto è dedicato a addestramento e manutenzione.
Su un fatto sono tutti concordi: di sicuro la imprevedibilità dell’attuale inquilino della Casa Bianca con i suoi continui mutamenti di dichiarazioni e di pensiero ha cambiato lo scenario internazionale. Ma, alla fine, non è detto che questo sia un male. Perché Trump sta spingendo gli europei a reagire. Lo dimostra, per esempio, il recentissimo e importante accordo tra Francia e Gran Bretagna sul nucleare. “E c’è la novità dell’ingresso sempre più consistente dei capitali privati nel settore della Difesa» dice Karolina Muti. «Anche le start up possono avere un loro ruolo. Occorre, però, che alle ambizioni del budget si facciano seguire le ambizioni della politica”. Concorda il generale Camporini: “La politica oggi la stanno facendo gli amministratori delegati delle aziende, non i politici. Gli Stati Maggiori non si devono far dettare la linea dall’industria. Un primo passo lungo questa strada nuova ma necessaria è rendere compatibili le strutture della Nato con quelle dell’Unione Europea”. E poi bisogna guardare ai numeri: “A breve la Russia avrà una Forza Armata di ben oltre il milione e mezzo di soldati. Le cifre europee sono di gran lunga inferiori”. Potrebbe aiutare il ripristinare il servizio militare di leva? Camporini scuote la testa: “Può funzionare in paesi come la Svezia o la Finlandia. Ma non in Italia: l’opinione pubblica è generalmente contraria”.
E allora? “Allora, innanzitutto sarebbe necessario armonizzare i sistemi di difesa europei, almeno dei cinque che ho indicato: Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Polonia. Per citare un solo caso: i cannoni dei carri armati europei hanno spesso lo stesso calibro, ma alcuni sono a canna liscia altri a canna rigata. Quindi non si possono adoperare le stesse munizioni. Ma questi sono dettagli”. Perché, se questi sono dettagli che cosa è che conta? “Quello che conta è capire una cosa: dobbiamo armarci per poterci poi disarmare. Soltanto se ci armiamo in modo giusto, gli Stati Uniti e la Russia ci guarderanno in maniera diversa”. Guardate Trump. All’inizio aveva detto che la Nato non gli interessava. Poi ha capito che l’Allenza Atlantica ha una notevole capacità organizzativa e di rapidità di intervento. E allora, da ex immobiliarista di New York che sa fiutare quando un edificio e il quartiere in cui trova possono salire di prezzo, sta alzando la posta. Adesso dice: “Ok a dare più armi americane all’Ucraina ma il conto lo pagherà la Nato”.
Insomma: dalla conferenza al Circolo degli Esteri è emerso un messaggio cauto ma chiaro. Come dicevano gli antichi e saggi romani:”Si vis pacem para bellum” se vuoi la pace attrezzati per la guerra.