NEW YORK Nel 2000 Al Gore perse contro George Bush pur avendo riportato lo 0,5% dei voti popolari più dell’allora governatore del Texas. Nel 2016, Hillary Clinton perse contro Donald Trump nonostante avesse ricevuto il 2% del voto popolare più dell’imprenditore newyorchese. Anomalie del sistema elettorale statunitense dovute al fatto che nel redigere la Costituzione nel 1787 i Padri Fondatori adottarono per l’elezione del presidente il sistema del Collegio Elettorale, come compromesso tra diversi modelli proposti, tra cui l’elezione diretta del presidente sulla base del principio “una persona, un voto” o l’elezione del presidente da parte del Congresso.
Il Collegio Elettorale è costituito dal totale dei voti che ciascuno Stato ha in dotazione ai fini dell’elezione presidenziale. Sono 538 voti, un numero a cui si arriva addizionando il totale dei deputati che ognuno degli Stati manda al Congresso e il totale dei senatori, cioè 435 + 100. Altri 3 voti elettorali vengono aggiunti in rappresentanza di Washington DC, la capitale, che è un distretto indipendente. Per vincere la presidenza ci vogliono 270 voti elettorali, cioè la metà più uno. E siccome in 48 dei 50 Stati vige il principio winner-takes-all (chi vince piglia tutto) può capitare che un candidato si aggiudichi la maggioranza dei voti elettorali, ma non la maggioranza dei voti popolari, come è successo a George Bush nel 2000 e a Trump nel 2016, e come si teme possa succedere di nuovo a novembre.
Nel 1787 i Padri Fondatori, che comunque non si fidavano che il popolo comune avesse abbastanza informazioni e cultura per eleggere direttamente il presidente, adottarono questo sistema nell’intento di non dare troppo potere agli Stati più popolosi e di proteggere quelli meno popolosi. Il sistema di “una persona, un voto” sarebbe significato che gli Stati allora più popolosi, come la Virginia, la Pennsylvania e il Massachusetts, avrebbero avuto più peso di quelli meno popolosi come il Connecticut, il Delaware o il Rhode Island.
Inoltre nel concetto di Federalismo che veniva abbracciato, gli Stati non erano semplici suddivisioni territoriali, ma entità sovrane che avrebbero condiviso il potere con il governo federale. Il Collegio Elettorale garantiva un equilibrio tra popolazione e sovranità statale.
O almeno lo garantiva allora e lo ha garantito per decenni, se non per secoli, e difatti nei 213 anni prima degli incidenti ravvicinati Gore-Clinton, era successo solo tre volte che un candidato vincesse il voto popolare ma non quello elettorale.
Nel Novecento e nel Duemila la situazione è cambiata, anche perché a complicare la situazione nel 1929 il Congresso decise di smettere di aumentare il numero di deputati proporzionalmente alla crescita della popolazione. Decise di fermarli a 435. Nel 1929, la popolazione era di 106 milioni, oggi è di 334. E molti oggi pensano che il sistema sia progressivamente diventato ingiusto. Se una volta proteggeva gli Stati con un numero esiguo di abitanti da quelli più popolati, oggi di fatto garantisce una vera e propria ingiustizia ai danni degli Stati più popolosi. E i numeri lo rendono molto chiaro.
Ogni Stato ha due senatori e un numero di deputati proporzionali alla sua popolazione, per cui, per quanto piccoli o poco popolosi, ogni Stato avrà un minimo di 3 voti elettorali, pari a 2 senatori più 1 deputato. Stati come il Wyoming, il Vermont, l’Alaska hanno dunque 3 voti. Stati popolosi come California, Texas, New York, Illinois hanno rispettivamente 55, 38, 28 e 19 voti elettorali.
Ma se si calcolano le percentuali significa che il Wyoming, che ha 580 mila abitanti vanta un voto elettorale ogni 193 mila persone, il Vermont uno ogni 215 mila, l’Alaska uno ogni 244 mila persone.
Al contrario, significa che in Texas un voto rappresenta 777 mila persone, in California 727 mila abitanti, nello Stato di New York 1 voto ne vale 700 mila, nell’Illinois uno per 667 mila.
Come si vede il sistema è ben lungi dal rappresentare il principio democratico di “una persona, un voto”. Ma cambiarlo vorrebbe dire cambiare la Costituzione, e cambiare la Costituzione non è facile. Per proporre un emendamento, è necessaria una maggioranza qualificata di due terzi (67%) in entrambe le Camere del Congresso, e una volta votato, l’emendamento deve essere approvato da tre quarti degli Stati (attualmente 38 su 50 stati). A parte che una maggioranza dei due terzi nelle due Camere è oggi improbabile anche su argomenti di accertato interesse comune, significherebbe comunque chiedere agli Stati privilegiati di rinunciare al loro privilegio.
Una soluzione che appare più verosimile è che gli Stati stessi adottino un sistema proporzionale, e cioè dividano proporzionalmente i voti elettorali sulla base delle percentuali ricevute da ciascuno dei due candidati. Il Maine e il Nebraska hanno un sistema semi-proporzionale. Ma adottarlo richiede una volontà politica che non sembra esistere: gli Stati tendono a mantenere il sistema winner-takes-all perché questo spesso favorisce il partito dominante localmente, che non ha intenzione di cedere il potere.
Un’altra soluzione potrebbe essere di aumentare il numero dei deputati, e quindi aggiudicare un più alto numero di voti elettorali agli Stati più grandi. Questo avvantaggerebbe anche stati conservatori come il Texas e la Florida. E tuttavia, per adesso, l’ipotesi è studiata solo al livello accademico. Prima che se ne parli nelle aule del Congresso potrebbero passare decenni.