Più che un vice cerca un “governing partner”. Una spalla robusta e competente alla Casa Bianca che completi il suo ticket per battere Donald Trump. Sono le ultime ore di esami. Tutte le “pagelle” con qualità e difetti sono state completate e verificate dall’ex ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder. Si cercavano piccoli scheletri nell’armadio o elementi di imbarazzo, come qualche vecchia amante sfuggita ai radar.
Kamala Harris ha già ottenuto tutti i voti necessari per la nomination democratica e sarà in grado di scegliere il suo numero 2 per un intensissimo viaggio verso le elezioni del 5 novembre.
Donald Trump ha già iniziato un bombardamento a tappeto accusandola di essere stupida, incompentente, troppo di sinistra, anti-israeliana, socialista e favorevole all’ingresso dei criminali illegali di altri Paesi negli Stati Uniti per offrire loro anche assistenza sanitaria gratuita.
“Se vince distruggerà il Paese e ci porterà alla terza guerra mondiale”, dice il tycoon, mentre dalla Georgia fa gli auguri a Putin per lo scambio degli ostaggi durante il quale la Russia ha fatto un grande affare, senza spendere nemmeno una parola per i prigionieri americani liberati dopo anni di detenzione.
Ma Harris, di fronte alle accuse razziste e classiste sulla sua condizione di donna, continua a raccogliere centinaia di milioni di dollari in piccole donazioni e snobba “Trump il bullo” decidendo di andare oltre le sue critiche definite un disco rotto, per sfidarlo, invece, a presentarsi il 10 settembre al secondo dibattito sulla ABC perché “io ci sarò comunque”.
La campagna di Harris ha respinto al mittente, come fantasia, la contro proposta di Trump di vedersi il 4 settembre sulla Fox News. Lei è disposta ad altri faccia a faccia con lui, ma a condizione che il tycoon rispetti gli impegni già presi e non si rimangi la parola.

L’attenzione in queste ore è puntata, però, sulla scelta del vicepresidente. La lunga rosa di nomi si è ristretta a un terzetto. Ieri, Harris ha visto a Washington sia il senatore dell’Arizona Mark Kelly, astronauta ed eroe nazionale, strategico per la sua specializzazione sulla sicurezza del confine, sia il governatore del Minnesota Tim Walz, considerato un grande comunicatore, ma sicuramente il più liberal dei tre. Da ultimo, ha visto anche il governatore della Pensylvania Josh Shapiro, democratico moderato ed espressione della comunità ebrea che potrebbe essere il meglio posizionato per assicurare a Harris i 19 voti elettorali dello Stato a novembre.
Se Shapiro, sulla carta, sembra davanti agli altri (anche lui con un passato da procuratore generale), dai gossip e dai tabloid è spuntata, però, un vecchia storia che lo vede indirettamente coinvolto in Pennsylvania per non aver vigilato a sufficienza sulla condotta sessuale di un suo alto funzionario, per altro repubblicano, dove lo Stato è stato costretto a risarcire in segreto la donna oggetto di molestie con 259.000 dollari.

In questa ricerca nel torbido e nel passato, anche Dough Emhoff, il marito di Harris, ha di fatto ammesso di aver tradito la sua prima moglie con un’insegnante delle figlie che fu poi costretta ad abortire avendo poco meno di 30 anni.
Valutati i pro e i contro, essendo i tre ultimi super candidati tutti molto qualificati, Harris ha già fatto sapere che sceglierà un “governing partner” per la Casa Bianca e non un semplice numero due.
Il fatto che l’annuncio e il primo comizio insieme si svolgeranno in Pennsylvania martedì e che il governatore Shapiro è stato ascoltato per ultimo lascerebbe propendere su questa scelta, che garantirebbe a Harris la copertura del fianco sull’anti-semitismo. Ma anche Kelly, l’eroe pluridecorato e noto per la sua moderazione nello Stato chiave dell’Arizona, potrebbe diventare un eccellente compagno di viaggio. Più distanziato tra i finalisti il governatore Walz in quanto è accreditato come il più liberal dei tre e potrebbe risultare non gradito alla decisiva componente degli indipendenti che preferiscono figure pragmatiche e di centro.
Intanto, mentre è stazionario quello di Trump, continua a crescere l’entusiasmo dei volontari democratici che sono diventati 230.000 e vogliono lavorare nelle “brigate di Harris” in tutti gli Stati in bilico. Dovranno registrare nuovi votanti democratici, soprattutto giovani, e assicurarsi che entro il 5 novembre mettano le loro schede nelle urne, per posta o di persona.
Sedici anni dopo, la sensazione è di assistere a una nuova onda obamiama del “yes, we can”. Harris ha già arruolato quasi tutta la squadra dell’ex presidente Obama, compresi gli strateghi, e questa volta, dopo la Convention di Chicago, nel Paese il nuovo effetto potrebbe essere ancora più profondo.
Nelle sue casse, nel solo mese di luglio, sono finti 320 milioni di dollari. Trump si è fermato a meno della metà e il trend dei democratici continua.