C’è stato un lungo incontro un po’ curioso ai margini dei funerali del presidente emerito Giorgio Napolitano. La premier italiana Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron si sono parlati per oltre un’ora ed è uscita dal loro colloquio un specie di progetto per il futuro dell’Africa. Ai due eredi del colonialismo più bieco, nemmeno tanto pentiti, è venuta l’idea di trasformare l’immigrazione illegale in un bacino di formazione professionale dedicata a centinaia di migliaia di migranti che hanno voglia di venire a lavorare legalmente in Europa.
Tutti gli stati dell’Unione europea, preoccupati dall’impatto dei migranti che approdano nei nostri Paesi, dovrebbero in qualche modo partecipare all’iniziativa mettendo da parte antagonismi e paure che stanno crescendo tra governanti e popolazioni del nostro continente. Molti, probabilmente, sono sospettosi e probabilmente lo saranno ancora di più – se mai il progetto dovesse andare avanti – le genti dell’Africa: Molti avvenimenti recenti sono indicazione dei loro umori. E della fiducia che hanno e che possono avere nei confronti del Vecchio continente e, per altri motivi, anche di quello nuovo.
L’interventismo di Parigi nelle sue ex colonie africane dopo decenni dalla decolonizzazione ha prodotto un altissimo livello di anti-francofonia nelle popolazioni, soprattutto tra i giovani. Una serie di colpi di stato stanno demolendo la presenza politica e militare di Parigi tanto che la Francia ha annunciato pochi giorni fa il ritiro delle sue forze militari dal Niger, Paese considerato chiave per il suo legame – neocoloniale? post-neocoloniale? – con quel vasto territorio che i nostri antenati definivano “continente nero”.

L’Algeria – “territorio d’oltremare” della Francia – non era stata mai considerata una vera colonia ma le relazioni tra Parigi e Algeri sono andate progressivamente peggiorando per numerosi motivi tanto che, pochi mesi fa, il governo dello stato mediterraneo aveva deciso di elevare a materia obbligatorio di studio la lingua inglese al posto del francese. Uno smacco evidente nemmeno tanto nascosto dalla giustificazione ufficiale: E’ molto più parlata e scritta negli studi e nelle comunicazioni internazionali.
Torniamo al colloquio Meloni-Macron. Non sappiamo se, parlando di Africa – ieri, oggi e domani – hanno accennato anche al totale fallimento del progetto di Parigi di togliere all’Italia il “controllo” della Libia. La situazione disastrosa del Paese africano è certamente l’esempio più recente e chiaro dell’atteggiamento privo di scrupoli e, direi, superficiale quando i Paesi potenti decidono di intervenire negli affari dei Paesi meno ricchi. È sempre stato così. Le cronache di questi giorni legano l’Europa al suo passato e al presente dell’Africa. E le cronache di questi continenti, agli Stati Uniti.
Nicholas Radburn, uno storico della Lancaster University, stava frugando nel seminterrato della British Library quando ha trovato un’illustrazione (una corona usata come simbolo dai re d’Inghilterra) e un testo che spiega che si trattava del “Marchio d’ora in poi, da mettere sui corpi dei negri” da vendere nelle Indie occidentali spagnole”, in base a un contratto tra la defunta regina Anna della Gran Bretagna e il re spagnolo Filippo V. “Questo dimostra chiaramente – ha sottolineato Radburn – la stretta connessione tra la Corona e la South Sea Company e le sue attività. In questo caso, schiavizzare e marchiare le persone”.
Negli anni Sessanta, molti anni prima dell’ex presidente Obama, visitai il Ghana e le numerose fortezze sulle rive del Golfo di Guinea dove venivano trascinati gli schiavi prima di affrontare l’Atlantico e finire nella Americhe. Negli Stati Uniti, quasi la metà degli incatenati proveniva da due regioni: il Senegambia (area che comprende i fiumi Senegal e Gambia e la terra tra loro) ossia gli odierni Senegal, Gambia, Guinea-Bissau e Mali; e l’Africa centro-occidentale, compresi quelli che oggi sono l’Angola, il Congo, la Repubblica Democratica del Congo e il Gabon. Nel nostro mondo di oggi le informazioni abbondano e circolano insieme con le ricostruzioni storiche, vecchi rancori emergono da memorie assopite.
“Sapevamo che il mondo non sarebbe stato lo stesso. Alcune persone hanno riso, alcune persone hanno pianto. La maggior parte delle persone rimase in silenzio”. J. Robert Oppenheimer non ha bisogno di presentazioni. Il suo nome occupa, ormai, i maxi-schermi cinematografici di mezzo mondo. E con la suo devastate scoperta siamo costretti a tornare nella, a noi vicina, Africa. Al colonialismo, a Macron e Meloni.

Due anni fa ha piovuto sabbia rossa in Francia. La polvere proveniente dal deserto del Sahara conteneva residui di inquinamento radioattivo legato ai numerosi test della bomba atomica effettuati dalla Francia negli anni ’60 nella base di Reggane, 1550 chilometri da Algeri e dalla costa del Mediterraneo. Pochi anni dopo quelle quattro esplosioni un reticolato di filo spinato corroso e un cartello che sventolava nel vento invitava i pochi viaggiatori come me a non transitare. Soltanto anni dopo si è saputo che soldati francesi e numerosi algerini delle oasi limitrofe si erano ammalate per le radiazioni. Qualcuno era morto. Altri hanno sviluppato malattie genetiche.
Pochi anni fa, documenti segreti francesi rivelarono che le aree colpite furono molto più grandi di quanto affermato dal governo di Parigi. Le radiazioni della sola prima bomba avevano coperto una vasta area che andava dall’Algeria alla Libia (Fezzan sopratutto), alla Mauritania, fino al Mali e alla Nigeria. Furono sfiorati anche il nord della Spagna e dell’Italia. La nuova Francia, rispetto all’Africa, non è molto diversa da quella vecchia: adducendo come motivazione il segreto militare, si è rifiutato di rivelare al governo algerino i luoghi nel Sahara dove furono stoccate le scorie nucleari.