Due dicembre 2011. Rachel Donadio, sul “New York Times”, comincia così la sua corrispondenza da Roma: “Some have taken to calling him simply “Re Giorgio,” or King George, for his stately defense of Italian democratic institutions and the outsize albeit behind-the-scenes role he played in the rapid shift from the cinematic government of Silvio Berlusconi to the technocratic one of Mario Monti…” (“Alcuni hanno iniziato a chiamarlo semplicemente “Re Giorgio”, o Re Giorgio, per la sua maestosa difesa delle istituzioni democratiche italiane e per il ruolo enorme, anche se dietro le quinte, che ha svolto nel rapido passaggio dal governo cinematografico di Silvio Berlusconi a quello tecnocratico. uno di Mario Monti..”).
Chissà se Donadio (e i suoi lettori) hanno immaginato che con quella descrizione inconsapevolmente accreditavano una “leggenda” che circola da sempre sul conto di Napolitano: essere davvero, per via di sangue, “regale”.
Malelingue certamente, oggi si direbbe fake news: secondo le quali Napolitano sarebbe “Re d’Italia”, in quanto nato da una presunta relazione, segreta e illegittima della madre con Vittorio Emanuele III o con Umberto II: gli ultimi due sovrani d’Italia della dinastia dei Savoia: Vittorio Emanuele III re dal 1900 al 1946, quando abdica in favore del figlio Umberto II, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Umberto II sul trono appena un mese (il re di Maggio), deposto dopo il referendum che sancisce il passaggio dalla monarchia alla repubblica, il 2 giugno 1946.
Al di la’ della leggenda: Napolitano nasce a Napoli il 29 giugno 1925. Una vita per la politica: deputato dal 1953 al 1996; al Parlamento Europeo dal 1989 al 2004; senatore a vita nel 2005, nominato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi; poi eletto undicesimo presidente della Repubblica il 10 maggio 2006, sette anni dopo rieletto. Il primo comunista “inquilino” del Quirinale.
Al di la’ della diceria, di sicuro un gran borghese: padre avvocato liberale, ma anche poeta e scrittore; madre figlia di nobili napoletani originari del Piemonte. Come tanti ragazzi dell’epoca aderisce ai Gruppi Universitari Fascisti; nel 1944 si iscrive al clandestine Partito Comunista. Fa parte di quel gruppo di giovani intellettuali partenopei che “fuggiranno” a Roma, destinati a farsi strada, nella politica e nel mondo culturale: Massimo Caprara, che diventera’ segretario particolare di Palmiro Togliatti,Maurizio Valenzi, futuro sindaco di Napoli, i registi Giuseppe Patroni Griffi e Francesco Rosi, gli scrittori Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone… Ama l’arte, la letteratura, il cinema; un passato anche come attore: un paio di piccole parti nella compagnia degli Illusi.

Togliatti ben presto si rende conto delle sue doti, lo nomina prima segretario delle federazioni di Napoli e Caserta; poi il Comitato Centrale del Partito, infine nella segreteria nazionale.
E’ il 1956: l’URSS di Stalin stronca la rivolta in Ungheria. I comunisti italiani si allineano con i sovietici, gli insorti ungheresi sono definiti dal giornale del partito “l’Unita’” «teppisti» e «spregevoli provocatori». Molti amici di Napolitano lasciano polemicamente il partito. Lui resta, in sintonia con la linea dettata da Togliatti; elogia pubblicamente l’intervento sovietico, critica le posizioni di chi condanna l’intervento sovietico. Anni dopo ammettera’ l’errore di quella posizione, la condannera’ con parole severe. Pur restando nel PCI e’ ormai un socialdemocratico convinto: l’unico tra i dirigenti comunisti di quegli anni che conosce l’inglese. Per questo tiene tiene conferenze negli istituti di politica internazionale in Regno Unito e Germania, si confronta con la socialdemocrazia europea, in particolare l’Ostpolitik di Willy Brandt; e “lezioni” nelle università statunitensi. Nel 1978 e’ il primo dirigente del PCI a ricevere un visto per gli Stati Uniti, conferenze ad Aspen in Colorado e all’universita’ di Harvard; grazie all’interessamento di Giulio Andreotti viene ufficialmente invitato a un ciclo di incontri ad Harvard, Yale, Chicago, Berkeley, John Hopkins-SAIS e CSIS di Washington, e a colloqui con Henry Kissinger.
Al di la’ delle biografie ufficiali redatte da zelanti uffici stampa (pupillo di Giorgio Amendola, deputato a 28 anni, in Comitato centrale a 31, responsabile del Mezzogiorno, della Cultura, del Lavoro, dell’Organizzazione, della Politica Estera, capogruppo a Montecitorio e al Parlamento Europeo, primo ministro dell’Interno comunista), per cercare di capire l’uomo e di conseguenza il politico, forse meglio fare ricorso ad aneddoti considerati “marginali”, ma comunque significativi.
Michele Anselmi, per anni redattore de “l’Unita’”, racconta, “da osservatore incuriosito”, che di essersi trovano un anno prima dell’elezione di Napolitano a presidente della Repubblica, a passeggiare nella spiaggia di Capalbio, all’epoca considerata una sorta di Olimpo degli intellettuali e dei politici di sinistra: “Stentai francamente a riconoscerlo: avanzava sul sentiero che porta alla spiaggia insieme alla moglie Clio, indossando un cappellino di paglia, una maglietta bianca, dei pantaloni corti e ciabatte da mare. Lo guardai meglio: era proprio Napolitano, mi parve terribilmente invecchiato, più dei suoi 80 anni, un po’ curvo, lo sguardo spento, ormai quasi fuori dalla politica, come se avesse messo nel conto una sorta di rassegnato oblio. Pensai: vedi gli effetti devastanti della “pensione” su certi politici di razza, e Napolitano certo lo era, per cultura, militanza, realismo, senso di appartenenza e delle istituzioni. I due anziani coniugi mi passarono accanto, avrei voluto dire a lui che avevo lavorato per ventisei anni a “l’Unità”, che avevo letto tanti suoi commenti e ascoltato i suoi discorsi, che non m’era mai parso “di destra”, pur essendo un riformista inviso a molti del PCI, tendenza migliorista. Invece stetti zitto, per una sorta di pudore, come per non metterlo in difficoltà. Sembrava davvero un vecchietto male in arnese, un po’ valetudinario. Neanche un anno dopo, vestito di tutto punto, dritto come un fuso e con una bella voce tonante, tenne il suo primo discorso da presidente della Repubblica. Era come rinato fisicamente, aveva recuperato la grinta saggia ed elegante di un tempo, anche quel suo andamento da gran borghese napoletano. Non so se sia stato davvero una specie di re, anzi di king, ma di sicuro quel cambiamento a tarda età mi fece riflettere sul potere ringiovanente del potere”.
Un altro ricordo – e qui siamo tra il personale, la diretta esperienza: la valutazione politica e storica – viene da Paolo Mieli: “Mio padre (Renato Mieli, ndr) era vicino al PCI, conosco Napolitano da quando ero bambino. A causa della mia storia familiare, conoscevo tutti i dirigenti del Partito e lui è l’unico con cui, da adulti, ci siamo sempre dati del “lei” pur in un rapporto di grandissima confidenza. Quando era al Quirinale ci siamo visti molto spesso. E in questi modi ho notato il suo essere diverso, il suo rispettare le forme anche con chi conosceva dall’infanzia. Ma c’è stato in precedenza, un triennio di grande cambiamento della sua vita che lo ha reso quello che era”.
Il triennio a cui allude Mieli e’ quello dal 1966 al 1969: “Morto Togliatti segretario del PCI era Luigi Longo. Napolitano esercitava le funzioni di vicesegretario: era la promessa, un giovane brillante. Durante l’11esimo congresso del PCI ci fu un aspro scontro tra Giorgio Amendola, che aveva un rapporto più stretto con le socialdemocrazie; e Pietro Ingrao, che era più radicale, guardava alle rivoluzioni nel mondo e ai rapporti con la sinistra cattolica. Lo scontro si risolse a danno di Napolitano: nel19‘69 scegliere lui come futuro successore di Longo avrebbe significato assegnare la vittoria ad Amendola, invece a sorpresa gli fu preferito Luigi Berlinguer. Da quel momento, anziché prendere cappello e andarsene come avrebbe fatto chiunque, Napolitano si pose come leader dell’area contraria al flirt con i movimenti studenteschi, più distaccato verso l’Urss e attento ai rapporti con Usa e Alleanza Atlantica. Quelli che vent’anni dopo sarebbero stati chiamati i “miglioristi”. In sostanza anticipò la posizione di Berlinguer che, nel 1976, disse di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato”.

Mieli descrive Napolitano come uomo di grande cultura, affabile, garbato, un punto di riferimento non solo politico. Un solo difetto: eccessivamente puntiglioso, ossessionato dalla precisione: “Anche dal Quirinale, poteva telefonare molte volte per rettificare un aggettivo. Non cercava incarichi né organizzava riunioni: gli bastava essere il riferimento di una visione più moderata, liberaldemocratica, anglo-sassone. Tutto questo lo rese un oppositore implicito di Berlinguer: sulla questione morale e l’anti-craxismo si intuiva che Napolitano stava dall’altra parte. Ma lo lasciava capire in modo felpato, delicatissimo, senza scandali”.
Se una sintesi e’ consentita: per Napolitano (“Giorgio o siccu”, per distinguero da “Giorgio o chiattu”, quell’Amendola di cui era discepolo politico) fare una battaglia per perderla non ha senso, non è un comportamento da leader. Il suo modo felpato e forse troppo prudente era il tratto di un politico per cui vale la pena combattere se si può vincere, un politico insomma attentissimo a calcolare le forze in campo.
Che cosa restera’ di Napolitano? Certamente l’aver “segnato” decenni di vita della Repubblica, esponente di quella generazione che nell’immediato secondo dopoguerra, costruisce un’Italia nuova e migliore dalle ceneri lasciate dal fascismo.
Compito degli storici sara’ quella di fare luce e verita’ sulle ambiguita’ che pure ci sono state, nel percorso umano e politico di Napolitano: l’accettazione dell’invasione dell’Ungheria nel 1956 da parte dell’URSS; la condanna di Aleksandr Solgenitzin e del suo “Arcipelago Gulag”, i non pochi errori politici e valutazioni errate. Ma questo, appunto, e’ compito di storici che devono vagliare con attenzione e distacco documenti, atti pubblici, contesti, favoriti anche dal “distacco” del tempo che sopisce le passioni di una “cronaca” quotidiana.
Chi scrive non e’ profeta, ne’ figlio di profeti. Si puo’ pero’ forse osservare che se il PCI avesse dato piu’ retta a Napolitano e meno all’ancora oggi osannato Enrico Berlinguer, non ci si sarebbe potuti risparmiare buona parte di quanto accaduto negli anni ’70 e ’80, ci si sarebbe incamminati nella scia dei tempi nuovi, si sarebbe potuta costruire una piu’ efficace opportunità di sinistra senza logorarsi in una guerra fratricida con i socialisti, piu’ pratici e meno dogmatici, piu’ pragmatici e meno favolistici?

La pretesa superiorita’ morale berlingueriana, lo vediamo oggi, era un mito; molto meglio il realismo, sia pure frutto di una togliattiana educazione, di Napolitano. Meglio un capitalismo sorvegliato di un inconcludente anticapitalismo; meglio un leale atlantismo e una piena partecipazione alle democrazie occidentali, che un “ne’, ne’”. Forse ci saremmo risparmiati un Silvio Berlusconi, una cosiddetta seconda repubblica edificata sul sogno infantile dell’onestà e dell’antipolitica; avremmo evitato le pagliacciate grilline e salviniane.
Chi lo ha conosciuto da vicino ricorda che da giovane coniuga materialismo storico a passioni per Salvatore Di Giacomo, e poeti all’epoca poco noti, ciome Yeats, Joyce, Auden, Eliot; personaggio dotato di misurata, britannica ironia, ma anche capace, alla guida dell’auto, di imprecazioni da carrettiere; ancora: la volta che si mostra ai fotografi con in testa un berretto fatto con carta di giornale tipo muratore; o la lettera che smentisce di aver presentato a Marta Marzotto Vittorio Vidali, il comandante “Carlos” della Guerra civile in Spagna e futuro attentatore di Trotsky, e non il “Carlos” terrorista internazionale detto “Lo Sciacallo”.
Prima di chiudere questa non breve nota, un ricordo di cui sembra essersi smarrita la memoria. Napolitano e’ il primo (e unico) presidente della Repubblica che – sollecitato da Marco Pannella culminate in lunghi digiuni della fame e della sete, e dalle iniziative del Partito Radicale) invia al Parlamento, avvalendosi delle sue prerogative costituzionali, um “messaggio” formale sulla situazione disastrosa nelle carceri italiane:
“Onorevoli Parlamentari,
(…) mi sono risolto a ricorrere ora alla facoltà di cui al secondo comma dell’articolo 87 della Carta, per porre a voi con la massima determinazione e concretezza una questione scottante, da affrontare in tempi stretti nei suoi termini specifici e nella sua più complessiva valenza. Parlo della drammatica questione carceraria (…) il sovraffollamento carcerario – unitamente alla scarsità delle risorse disponibili – incide in modo assai negativo sulla possibilità di assicurare effettivi percorsi individualizzati volti al reinserimento sociale dei detenuti. Viene così ad essere frustrato il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, stante l’abisso che separa una parte – peraltro di intollerabile ampiezza – della realtà carceraria di oggi dai principi dettati dall’art. 27 della Costituzione. Il richiamo ai principi posti dall’art. 27 e dall’art. 117 della nostra Carta fondamentale qualifica come costituzionale il dovere di tutti i poteri dello Stato di far cessare la situazione di sovraffollamento carcerario entro il termine posto dalla Corte europea, imponendo interventi che riconducano comunque al rispetto della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti umani.

La violazione di tale dovere comporta tra l’altro ingenti spese derivanti dalle condanne dello Stato italiano al pagamento degli equi indennizzi previsti dall’art. 41 della Convenzione: condanne che saranno prevedibilmente numerose, in relazione al rilevante numero di ricorsi ora sospesi ed a quelli che potranno essere proposti a Strasburgo. Ma l’Italia viene, soprattutto, a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Convenzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita. E tale violazione dei diritti umani va ad aggiungersi, nella sua estrema gravità, a quelle, anche esse numerose, concernenti la durata non ragionevole dei processi (…)
Sottopongo dunque all’attenzione del Parlamento l’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo: esse si configurano, non possiamo ignorarlo, come inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro paese ha legato i suoi destini. Ma si deve aggiungere che la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale. Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza, convivendo – senza impegnarsi e riuscire a modificarla – con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari. Il principio che ho poc’anzi qualificato come “dovere costituzionale”, non può che trarre forza da una drammatica motivazione umana e morale ispirata anche a fondamentali principi cristiani.
Com’è noto, ho già evidenziato in più occasioni la intollerabilità della situazione di sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari (…)
Ritengo perciò necessario intervenire nell’immediato con il ricorso a “rimedi straordinari”. La prima misura su cui intendo richiamare l’attenzione del Parlamento è l’indulto, che – non incidendo sul reato, ma comportando solo l’estinzione di una parte della pena detentiva – può applicarsi ad un ambito esteso di fattispecie penali (fatta eccezione per alcuni reati particolarmente odiosi). Ritengo necessario che – onde evitare il pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da parte di condannati scarcerati per l’indulto, come risulta essere avvenuto in occasione della legge n. 241 del 2006 – il provvedimento di clemenza sia accompagnato da idonee misure, soprattutto amministrative, finalizzate all’effettivo reinserimento delle persone scarcerate, che dovrebbero essere concretamente accompagnate nel percorso di risocializzazione. Al provvedimento di indulto, potrebbe aggiungersi una amnistia (…).
Ritengo che ora, di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo – morale e giuridico – di assicurare un “civile stato di governo della realtà carceraria”, sia giunto il momento di riconsiderare le perplessità relative all’adozione di atti di clemenza generale. Per quanto riguarda l’ambito applicativo dell’amnistia, ferma restando la necessità di evitare che essa incida su reati di rilevante gravità e allarme sociale (basti pensare ai reati di violenza contro le donne), non ritengo che il Presidente della Repubblica debba – o possa – indicare i limiti di pena massimi o le singole fattispecie escluse. La “perimetrazione” della legge di clemenza rientra infatti tra le esclusive competenze del Parlamento e di chi eventualmente prenderà l’iniziativa di una proposta di legge in materia….”.
E’ un “messaggio” dell’8 ottobre 2013. Parlamento e forze politiche hanno ritenuto di non accoglierlo. La situazione nelle carceri italiane e’ rimasta inalterata. Il presidente in carica Sergio Mattarella, volesse, potrebbe riproporlo semplicemente mutando le cifre (di poco) dei detenuti.