La nuova esplosione di violenza politica in Sud America non è uno dei consueti capitoli in cui ciclicamente la lotta per il potere nel subcontinente si biodegrada in furore. C’è un di più nelle rivolte che hanno sconvolto recentemente gli scenari politici in Brasile e in Perù. E’ un cancro che corrode la democrazia, la nega o quanto meno la rimette in discussione. Una metastasi che parte da lontano: l’assalto al Congresso americano, santuario mondiale della democrazia, il 6 gennaio 2021. Un modello imperniato sulla non accettazione del verdetto elettorale anche contro l’evidenza. E prontamente trapiantato in terre dove il populismo ha radici robuste.
In Brasile Lula ha rapidamente rintuzzato il tentativo di colpo di Stato. In cui, a differenza della sceneggiata trumpiana, trapelavano ammiccamenti dei vertici militari – già in parte epurati – non insensibili alle pulsioni sovversive di Jair Bolsonaro. Ma i generali erano anche consapevoli che un epilogo così traumatico avrebbe prodotto in primo luogo l’isolamento internazionale del paese. L’ex sindacalista risorto dalle ceneri non ha però estirpato, né gli sarà facile farlo, la rabbia che acceca l’esercito dei suoi irriducibili nemici (quasi la metà dell’elettorato). Dovrà governare seduto su una polveriera. Ha contro la maggioranza dei Parlamento rimasto fedele al vecchio presidente; molti dei governatori; i settori dell’esercito più reazionari e meno malleabili; gli evangelici che vedono nel ritorno al potere del socialismo sia pur edulcorato una minaccia per i valori spirituali; segmenti dell’imprenditoria e della rendita finanziaria insofferenti ai lacci dello Stato e dimentichi che nei due primi governi di Lula l’economia segnò significativi progressi; le legioni irriducibili dei fans dell’autoritarismo che per lavare l’onta di un’elezione a loro avviso rubata tenteranno in tutti i modi di boicottare il progetto riformista, senza escludere nemmeno la tragica prospettiva di una guerra civile.
Lula ha la duttilità diplomatica per disinnescare questa enorme quantità di mine. Cercherà di smussare gli angoli, offrirà compromessi, tenterà di riportare un po’ di serenità nel clima incandescente che intossica il gigante sudamericano (220 milioni di cittadini, dodicesima potenza economica mondiale). Le sue probabilità di successo in un paese così lacerato dipenderanno in primo luogo dal rilancio economico. Grazie all’appoggio delle élite liberali (l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso) ha già agganciato ampie fette dell’imprenditoria. In politica estera offre sponde a Joe Biden e si rifiuta contemporaneamente di manifestare ostilità nei confronti di Putin. Nel muoversi con prudenza, da equilibrista, sa comunque di avere alle spalle il popolo delle favelas e quello degli indigeni che lo sentono più vicino alle loro cause.

Molto potrebbe influire anche l’atteggiamento che assumerà Bolsonaro, sorta di convitato di pietra. Era riparato negli Stati Uniti proprio nei giorni più caldi dell’insurrezione. Screditato sulla ribalta internazionale soprattutto per la dissennata gestione del Covid. Un golpista nell’ombra che ha lasciato all’Armata Brancaleone dei suoi scalmanati la responsabilità dell’insurrezione. Come fece Trump: lanciare il sasso e nascondere la mano.
Per il momento Bolsonaro, ancora negli Stati Uniti, rimane avvolto in una cortina di impenetrabilità che nasconde probabilmente solo disorientamento. Sta cercando di protrarre il soggiorno negli States dove però non potrà rimanere in eterno, neanche accampando ragioni sanitarie. Se torna in Brasile, dove potrebbe aizzare più direttamente i suoi scagnozzi, rischia di finire subito in galera. L’alternativa è tramare per la rivincita dall’esilio, magari dall’Italia che gli offrirebbe la scappatoia di un nuovo passaporto per via di remoti antenati veneti. Di certo c’è che mentre Trump si ricandida e qualche possibilità di spuntarla l’ha ancora, per Bolsonaro un riscatto appare quasi impossibile. La mole dei reati dei quali è accusato dovrebbe renderlo ineleggibile. A meno che non lo rimettano in sella i militari che governarono con il pugno di ferro il Brasile dal 1964 al 1985. Ma di colpo di Stato si tratterebbe. Cioè della morte per infarto della democrazia.
Ancor più caotico il marasma in Perù. In un inestricabile e quasi comico intreccio politico-giudiziario che spinge alternativamente in carcere i protagonisti della trama. In galera c’è oggi un ex presidente, Alberto Castillo, asceso velocemente al vertice del potere. Era un maestro di scuola nelle Ande, leader di un partito di sinistra (Peru libre) che sposava principalmente le rivendicazioni indigene. Vince le elezioni nel 2021 battendo Keiko Fujimori che nel 2018 aveva già conosciuto le patrie prigioni per finanziamento irregolare della campagna elettorale, figlia dell’ex presidente Alberto Fujmori tuttora in carcere per gravi reati contro l’umanità.

La prima mossa di Castillo dopo l’insediamento è quella di promuovere primo ministro Guido Bellido, che in un’intervista aveva in qualche modo difeso i diritti dei terroristi di Sendero Luminoso (l’organizzazione guerrigliera di ispirazione maoista che negli anni Ottanta scatenò una guerra civile con oltre 18 mila morti). Poi, accortosi del passo falso, in preda alla confusione l’impacciato presidente lo sostituisce e ne nomina a breve distanza altri due. Oggi, destituito, è a sua volta in carcere per aver cercato di sciogliere il Parlamento che aveva promosso contro di lui una procedura di impeachment in seguito alla gestione dilettantistica della cosa pubblica che aveva affossato la sua popolarità. Al vertice, ad interim, è salita la vicepresidente Dina Boluarte, che proveniva dallo stesso partito di Castillo (poi abbandonato da entrambi). La nuova leader, ha promesso di riportare ordine e di anticipare le elezioni generali. Ma i seguaci di Castillo sono scesi prontamente in piazza scatenando violentissimi moti. Che l’esercito e la polizia hanno represso con altrettanta brutalità. Gli scontri hanno paralizzato il paese (anche alcuni turisti italiani son rimasti bloccati nelle Ande) e lasciato un’impressionante scia di sangue. Conclusione: anche la Baluarte nel gioco dell’oca giudiziario ora è indagata per presunti crimini di genocidio. In Perù da anni la politica si fa più in tribunale che negli uffici dell’esecutivo o nelle aule del Parlamento. Con tanti saluti alla democrazia.
Altri focolai di violenza politica si registrano in paesi sudamericani di rilevanza geopolitica. In Argentina, dove si voterà per la presidenza in autunno (primavera australe), gli scontri di piazza si sono moltiplicati dopo la condanna a sei anni di carcere e l’interdizione perpetua dagli incarichi pubblici (anche qui la giustizia) inferta alla leader Cristina Kirchner, vice dell’attuale capo di Stato Alberto Fernandez (entrambi sono peronisti di sinistra, ma non in sintonia). La Kirchner è protetta dall’immunità parlamentare ma non è ancora chiaro se potrà candidarsi nella prossima consultazione. Nell’incertezza i suoi sostenitori manifestano e vengono duramente caricati dalla polizia. A soffiare sul fuoco del malessere c’è anche la gravissima crisi economica che ha precipitato metà del paese sotto la soglia di povertà.
Segni di disagio, con conseguenti raid di protesta e dure reazioni di polizia, vanno periodicamente in scena pure in Cile e in Bolivia (paesi con governi di sinistra). Alimentati dal carovita e dalla contrapposizione feroce fra le diverse ideologie politiche. Se si esclude il Venezuela, da anni non c’è più la dittatura in Sudamerica. Ma la democrazia non si sente tanto bene.
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