Giusto mezzo secolo fa ad Oakland (CA), incontrai, insieme all’amico Rocco Pezzimenti, dirigenti del Black Panther Party. L’intervista, lunga e puntuale, non è mai uscita, e fu da noi utilizzata solo all’interno del “Gruppo di cultura politica” che avevamo fondato nell’università romana nella quale eravamo studenti. L’esperienza nel quartier generale delle Pantere ci insegnò molto, e arricchì con un pezzetto di storia nera la ricerca sulla New Left che stavamo conducendo.
Si era dentro la lunga scia degli anni della contestazione e della rivolta giovanile, di Mario Savio e del Free Speech Movement di Berkeley, con la guerra in Vietnam sempre incombente. Malcom X era stato assassinato nel 1965, Martin Luther King nel 1968. L’anno prima del nostro viaggio, era circolato il docu-film The Murder of Fred Hampton, sulla breve vita e la morte (assassinio della polizia in collaborazione con FBI, secondo regista e produzione) del ventunenne attivista afro-americano di Chicago, leader dell’Illinois Black Panther Party, nel dicembre 1969. Molto coinvolgente, il film nell’anno di uscita fu ritenuto degno di finire allo U.S. National Film Registry presso la Library of Congress, risultando nella categoria del “culturally, historically, or aesthetically significant”. L’incontro con le Pantere risentiva anche delle emozioni generate dalla pellicola.
In quell’America politicamente e socialmente violenta, nella quale il riformismo di Kennedy e soprattutto di Johnson non era riuscito a fare breccia, il movimento dei diritti civili e il suo cardine di non violenza stavano incontrando serie difficoltà, con una base mortificata dagli assassinii politici e dalla mancanza di convincenti successi, che si interrogava se non fosse necessario cambiare strategia. La nascita delle Pantere Nere fu una delle risposte all’accumulo di frustrazioni, certamente non la più efficace, almeno a giudicare dalla sua breve durata e dall’incapacità di attrazione generalizzata negli ambienti intellettuali, politici e sociali nei quali aveva in programma di penetrare e radicarsi.
Fu tuttavia un fenomeno, per quanto breve (nato ad Oakland nel 1966, il partito si sciolse già all’inizio degli anni ‘80), che generò grande attenzione, non solo negli Stati Uniti, divenendo, per qualche anno, l’organizzazione più rappresentativa della protesta e delle rivendicazioni nere. Al fondo della sua caducità non ci fu solo la scelta della violenza e dell’estremismo come metodo di resistenza al sistema razzista di bianchi e poliziotti primatisti, quanto l’incapacità di darsi una piattaforma ideologica che superasse il pragmatismo della quotidianità, e un’organizzazione strutturata che battesse il frazionismo e il personalismo dei suoi leader.
Quando, nell’intervista, provammo a capire l’ideologia che le guidava, e il progetto che intendevano realizzare, le Pantere esclusero recisamente di guardare a qualunque ideologia, sottolineando che ciò valeva in particolare per il marxismo: se ne sentivano “separate per una diversità di vedute filosofiche e ideologiche”. Rivendicavano la flessibilità dell’azione politica, il muoversi per obiettivi concreti, il non obbedire ad alcun codice e schema dottrinali. Notammo che quel modo di operare apparteneva di diritto alla New Left e la risposta fu: “molti di noi è là che sono cresciuti politicamente”.
Sembravano rifiutare il concetto che un partito, per vincere, debba convincere, e che per arrivare all’obiettivo sia bene disponga di un progetto nel quale il cittadino elettore possa identificarsi. Partivano da premesse morali, gettavano il cuore oltre l’ostacolo, dettavano il percorso virtuoso verso la società desiderabile, ma senza spiegare il come tutto ciò potesse prendere corpo: “Il sistema americano può essere cambiato … Crediamo che il capitalismo possa essere distrutto, negli Stati Uniti come in ogni parte del mondo. E questa distruzione può avvenire soltanto in un modo: la gente deve capire cosa vi è di profondamente sbagliato in questo sistema. Sarà l’approfondimento delle concezioni riguardanti la realtà della nostra società che cambierà la mentalità della gente. Attraverso ciò, dialetticamente, saranno anche le strutture della società che muteranno.”
Nell’intervista il partito negò l’etichetta di violento: “la pantera nera è un animale che usa la sua forza solo per difendersi, mai per attaccare. Si ha violenza quando si attacca, non quando ci si difende”.[…] Il nostro programma non è la violenza verso l’uomo bianco, non siamo un KKK alla rovescia. Siamo per la trasformazione; vogliamo cambiare la situazione del nero americano. La nostra è una lotta che si conduce sul piano culturale e assistenziale: è questa la nostra violenza. […] Siamo nati quando lo sconforto si stava infiltrando tra noi neri, a causa dell’inefficacia delle tattiche non violente. Noi facevamo i non violenti e la polizia ci ammazzava”.
In quell’ambito, interrogati sul rapporto con il leader non violento Martin Luther King, gli interlocutori esprimevano rispetto per la figura che consideravano membro del movimento di liberazione degli afro-americani, ma concludevano con una speranza sacrilega: “Egli fa parte di diritto della nostra lotta […] anche se ci separa una certa visione dei mezzi da adottare per la nostra liberazione. Cosa avrebbe fatto oggi? Evidentemente non lo possiamo sapere; forse sì, avrebbe compreso la necessità della violenza nera, almeno lo speriamo.”
Ci si può chiedere, mezzo secolo dopo, dove volessero davvero portare l’America quei ragazzi il cui partito sarebbe miseramente finito a dieci anni di distanza dall’intervista a Oakland. Al ”cambiamento della società”, aveva risposto nell’intervista un loro leader, Bobby Seale, aggiungendo di rifiutare la “distruzione fine a se stessa”. Ma quando gli avevo chiesto perché non concentrassero gli sforzi nel cambiamento del partito Democratico, appoggiando la fazione che sentivano più vicina, l’idea era stata rispedita al mittente. All’ipotesi che con quella tattica le Pantere avrebbero anche potuto influire su una futura candidatura democratica colorata, la risposta era stata: “Non so in che anno l’America avrà un presidente nero, né m’interessa saperlo. Non è un uomo che può cambiare la società. Se l’elezione di un presidente nero sarà l’effetto del cambiamento già avvenuto nella società sarà un bene per il nostro popolo. Altrimenti no. Si tratterebbe dell’ennesima frustrazione. Fino ad oggi è sempre stata la società americana che ha creato il suo presidente; non è mai avvenuto il contrario.”