È Luiz Inácio Lula da Silva, 77 anni, leader del partito dei lavoratori, il nuovo (e vecchio)
presidente del Brasile. Rieletto per la terza volta (aveva già occupato la massima carica da 2003 al 2011 per due mandati consecutivi) dopo aver battuto il record delle candidature (ben sette).
Jair Bolsonaro, 67 anni, presidente uscente e capo dell’estrema destra, cede il campo dopo una durissima battaglia in cui nonostante i pessimi risultati del suo quadriennio aveva smentito i sondaggi con un sensazionale recupero, riuscendo a trascinare dalla sua parte quasi la metà del paese ossessionato dallo spettro dell’irruzione del comunismo.
Nella generalità dei commenti prevalevano per entrambi i candidati più le perplessità delle
aspettative. Su Lula gravava la macchia dei gorghi della corruzione in cui era precipitato il suo
partito. Risucchiando anche lui per una storia mai del tutto chiarita su un attico ricevuto in cambio di favori. Ma alla lunga si è imposta la sua tempra di lottatore maturata nella lotte sindacali e la sua maggior sintonia con lo sterminato popolo degli umili. All’uscita del carcere, in cui era stato rinchiuso per quasi due anni, ha saputo affilare le armi della rimonta.
Scegliendosi come vicepresidente un vecchio avversario (il liberale Geraldo Alckmin). Calamitando i favori del popolo delle favelas e del Nord Est. Convincendo i settori moderati dell’imprenditoria e della borghesia delle grandi città deluse dalle fallimentari politiche di Bolsonaro. Reclutando per il secondo turno anche i rivali minori già eliminati. Ottenendo, soprattutto per le promesse a favore dell’Amazzonia violentata da Bolsonaro, il consenso della stampa progressista internazionale (fra cui il New York Times).
Tocca a lui adesso tentare di guarire le piaghe di un colosso di oltre duecento milioni di
abitanti, decima economia mondiale, che completa la virata a sinistra del subcontinente dove tutti i grandi paesi hanno oggi leader progressisti.
Gli analisti pongono però già l’accento sui margini troppo striminziti della vittoria che limiteranno inevitabilmente l’azione riformatrice di Lula. Giungendo alla conclusione che un candidato meno compromesso con le opacità del passato avrebbe vinto più facilmente contro un avversario tanto screditato. A Bolsonaro non è bastato l’appoggio massiccio dei turbocapitallsti, dell’esercito, della polizia, degli evangelici, dei ceti benestanti spaventati di vedere un Brasile avviato sulla china del Venezuela e del Nicaragua ed immemori che negli otto anni di Lula l’economia conseguì traguardi significativi.
A Bolsonaro ha nociuto la pessima gestione del Covid (quasi 600 mila morti), il disprezzo sostanziale della democrazia e della costituzione mutuato dal trumpismo di cui si sentiva
il legittimo erede. Ma il blocco sociale che lo sosteneva ha retto. Ha radici solide nel paese e
renderà molto difficile la navigazione di Lula. Che ha vinto perché per una ristretta maggioranza di brasiliani è stato prevalentemente considerato il male minore più che il toccasana di tutti i problemi.
Ha vinto in definitiva per un soffio (50,78 contro 49,22) non il più stimato ma il meno odiato. A capo della campagna più sporca e più violenta dal ritorno del Brasile alla democrazia (1985). Lasciando sul campo le macerie di un paese dilaniato, in cui i veleni sparsi da due visioni inconciliabili non faranno scendere la febbre neanche dopo il verdetto. Continuando a tenere in vita un clima di guerra civile fredda.
Lo spoglio dei voti ha ancor più esasperata l’eccitazione dell’attesa. Con Bolsonaro inaspettatamente in vantaggio nelle prime rilevazioni. Con la rimonta costante di Lula che ha effettuato il sorpasso ai due terzi dello spoglio. Per poi consolidare il margine, nel delirio del suo elettorato che ha vissuto per strada le tappe della sofferta vittoria come un giudizio divino.
L’aggressività non si è stemperata neanche al cospetto delle urne. Lula, dopo aver votato, non ha perso l’occasione di tirare l’acqua al proprio mulino scandalizzandosi per la scena da Far West in cui una deputata di Bolsonaro aveva minacciato per strada un presunto aggressore proprio nel giorno elettorale in cui era stato messo al bando l’uso delle armi. Bolsonaro, apparentemente più rilassato, stringeva intanto i legami con l’universo dello sport alzando al cielo la coppa dei Libertadores appena conquistata dai calciatori del Flamengo che gli manifestavano ampio sostegno.
Mentre la moglie proclamava ai quattro venti che avrebbe vinto sicuramente il marito per
la semplice ragione che “Dio era con loro”. L’estrema polarizzazione ha prodotto una delle campagne più sgangherate della storia. Fra insulti di ogni tipo, la violenza sempre latente, il degrado del dibattito in cui entrambi i contendenti sono scesi al livello dei bulli da strada rinfacciandosi ogni genere di nefandezze. Dal cannibalismo al satanismo, dal sessismo alla pedofilia.
Spalleggiati dalle truppe di assalto specializzate nelle più disgustose fake news. Con il fondo toccato probabilmente dall’ex ministra bolsonariana della famiglia Damares Alves che durante una cerimonia ha rivelato di avere “immagini dei nostri figli, di 4 anni, che hanno i denti strappati per non mordere durante il sesso orale e che mangiano cibo molle in modo che l’intestino sia libero per il sesso anale”.
Balla cosmica subito ripresa e rilanciata contro l’immorale mondo di Lula dai predicatori evagelici più fanatici. Al punto da attirarsi l’accusa di cristofascismo dagli evangelici progressisti. Lula nel fervore dell’emozione ha detto che questo è il giorno più bello della sua vita. Il giorno del ritorno della democrazia.
Da domani si troverà a scalare montagne gigantesche. Il Fondo Monetario internazionale prevede per il 2023 una contrazione del Pil dall’attuale 1,7 all’1,1. Il nuovo presidente cercherà di risollevare il paese annullando il piano neoliberista di privatizzazioni annunciato da Bolsonaro e puntando sull’istruzione, sulla sanità, sulle infrastrutture, su una distribuzione più equa della ricchezze basata su una maggiore tassazione dei ceti più abbienti.
Basterà forse per sistemare un po’ i conti. Non per raffreddare gli animi che in Brasile si agitano in acque tempestose, più emotive che razionali.