A vederli in tv mentre si azzuffano con l’aggressività dei bulli da strada hai l’impressione di essere davanti a un ring e non di assistere a un dibattito elettorale. Mentre rimbombano gli insulti reciproci (“Corrotto”, “Bugiardo”) da un momento all’altro ti aspetti che la disputa trascenda e si giunga alle mani. C’è naturalmente una ricerca dello show nel duello fra Lula e Bolsonaro. Entrambi convinti che i toni accesi, ai confini del disprezzo se non dell’odio, giovino a fidelizzare o catturare il consenso in un paese passionale come il Brasile, in politica fortemente influenzato dalla sfera emotiva.
La violenza è una sorta di convitato di pietra in questa campagna che sfocerà domenica prossima nella scelta del nuovo presidente. Innumerevoli gli scontri fra le opposte fazioni. A meno di una settimana dall’esito finale un ex deputato del partito conservatore di Bolsonaro, agli arresti domiciliari per atti antidemocratici, spara e lancia addirittura granate contro gli agenti della polizia federale accorsi ad arrestarlo per nuovi capi di imputazione. Gli animi su entrambi i fronti sono così tesi che dcmenica sera si paventa una riedizione dell’assalto al Campidoglio americano se le urne daranno ragione a Lula.
Si spera che non succederà nulla di tragico. E’ auspicabile che, con qualsiasi verdetto, prevalga la democrazia. E il Brasile (oltre 200 milioni di abitanti) si mostri all’altezza della sua leadership subcontinentale, ricucendo le lacerazioni nel fine supremo dell’interesse nazionale. Resta il fatto che mai nella storia pur molto turbolenta di questo paese le divisioni sono apparse così inconciliabili. Sono in campo due visioni diametralmente agli antipodi della politica e della società.

Da un lato Luiz Inacio Lula Da Silva, 76 anni, ex metalmeccanico, capo del Pt (partito dei lavoratori), già due volte presidente (dal 2003 al 2011). Leader di una sinistra non radicale che è sensibile alle istanze degli emarginati ma dialoga pragmaticamente con il mondo degli affari. Sostenuto dalla maggioranza dei ceti più umili (che negli otto anni in cui ha governato avevano beneficiato del suo piano di riforme), dei residenti nelle aree più disagiate (Nord Est e Amazzonia), dei moderati anche della destra liberale (si è scelto come vice, l’ex rivale Geraldo Alckmin), della maggioranza degli intellettuali. Favorito nella sfida di domenica anche se di misura. Ma con l’incubo di essere scavalcato nel rettilineo finale, visto che nel primo turno si è fermato al 48,4 per cento dei voti mentre i sondaggi lo avevano pronosticato subito vincente (oltre il 50).
Dall’altro il presidente in carica Jair Bolsonaro, 67 anni, ex capitano dell’Esercito, ex deputato del partito conservatore, autore in 22 anni al Parlamento di una sola proposta di legge. Alfiere di una destra estrema, di stampo trumpiano. Sostenuto – nonostante la quasi incuria nella lotta contro il Covid (640 mila morti) e i modesti risultati nell’economia – dall’imprenditoria delle metropoli, dai latifondisti, dagli evangelisti contrari alle eccessive aperture nei diritti civili, da parte della grande stampa, dagli artisti e dalle star del calcio (Neymar) attratti nel suo campo dai benefici fiscali. Accomunati dall’incubo del comunismo, dal timore che il Brasile finisca nella scia del Venezuela di Nicolas Maduro. Una paura che non viene neanche scalfita dalle gestioni rassicuranti di Lula in cui il Brasile faceva parte dei Brics (il raggruppamento dei paesi emergenti) e l’economia non era affatto in condizioni disastrose. Bolsonaro viene dato ancora per sfavorito negli ultimi sondaggi. Ma la sua rimonta al primo turno (dal 32 preventivato al 43,2 ) è stata spettacolare. E fino a domenica lascia il paese con il fiato sospeso.
Per Lula l’obiettivo del ritorno a Planalto, il palazzo residenziale di Brasilia, ha anche un significato di rivalsa personale. Il coronamento di una resurrezione, dopo i 580 giorni trascorsi in un carcere sia pur indulgente di Curitiba per lo scandalo Obebrecht. Che coinvolgeva molti esponenti laburisti e in cui veniva personalmente incolpato di aver ricevuto gratuitamente un attico in cambio di favori politici (da qui l’accusa di “corrotto”). Durante il quasi biennio di prigionia, con la terribile prospettiva di una condanna a 17 anni, Lula ha sempre negato l’accusa e non si è mai accasciato. Al contrario, ha affinato la strategia del rilancio. E ha ritrovato perfino l’amore: la nuova moglie Janja Silva, 55 anni, una sociologa di sinistra che lo andava spesso a intervistare in carcere. Riaffacciandosi nella politica, ha subito riproposto lo slogan “della scuola e del pasto al giorno per tutti” che lo aveva trascinato al potere. Tranquillizzando però i centri finanziari con sintonie un tempo impensabili (come quella con il leader conservatore Fernando Henrique Cardoso che negli anni Novanta lo aveva battuto nella corsa presidenziale).
Bolsonaro è rimasto il baluardo di un populismo che nella seconda metà dello scorso decennio marciava a gonfie vele, con la Brexit e l’avvento del trumpismo. Oggi è costretto sulla difensiva, ridimensionato dall’arroganza, dall’inaffidabilità, dagli scandali, dai traguardi mancati, dal negazionismo dei suoi fallimenti (da qui l’accusa di “bugiardo”). Ma trova ancora sponde solide negli ambienti più conservatori, fra gli integralisti religiosi, fra le fila dell’Esercito (da cui proviene) e della polizia. E’ una sorta di ultima bandiera della destra ruvida e intollerante. Un valore altamente simbolico che potrebbe mantenerlo in sella pure da sconfitto.
Parallelamente al clima di violenza la campagna elettorale brasiliana ha anche risvolti dionisiaci. Ricordo un comizio di Lula a Bahia, alla vigilia del suo secondo mandato. Già prima del suo arrivo si avvertiva fra gli attivisti un clima di eccitazione che si snodava fra ritmi incalzanti di samba e abbondanti bevute di birra e cachassa. Al termine la festa si protrasse fino a notte fonda. Tutti ballavano e bevevano, storditi dall’ebrezza e dall’atmosfera di Carnevale fuori stagione.
Ma anche i comizi di Bolsonaro diventano un pretesto di festa. Che dopo l’esibizione muscolare del presidente spazza via promesse miracolistiche e invettive contro il nemico sostituite da un tripudio di allegria. Con cortei di motociclette, capitanati dallo stesso Bolsonaro, e fans in delirio.
La politica in Brasile è un sentimento che può sconfinare nella fede. Nelle favelas di Rio e San Paolo non è raro vedere l’immagine di Lula appesa alle pareti come un santino. E durante i mondiali di calcio del 2014 neanche l’orgoglio per l’organizzazione dell’evento planetario annullava le sacche di malcontento. Un tassista che mi accompagnava in albergo si lamentò lungo tutto il percorso dello sfascio del Paese, dove a suo avviso non esisteva neppure il più pallido concetto dell’ordine e del progresso (il motto della Repubblica). Spingendosi ad auspicare un golpe dell’Esercito. Sul cruscotto ostentava nostalgicamente una fotografia del dittatore Emilio Garrastazu Medici ai tempi delle giunte militari.
Due mondi incomunicabili. Che, chiunque vinca, da lunedì continueranno a guardarsi in cagnesco.