È l’estate delle minacce e dello sconforto. Un paradosso, a guardare da un lato i problemi intorno a noi e dall’altro le stranezze della politica. Servirebbero impegno e costanza. Unità e coerenza. Invece, si moltiplicano tensioni e manovre, si accentua quell’ammoina che intorbida le acque. Impossibile tenere la barra dritta in una fase tanto cruciale.
Il ghiaccio della Marmolada si scioglie, e chissà quanti altri ghiacciai potrebbero cedere. Il fuoco ammorba l’aria di Roma e non intimorisce i cinghiali, liberi di vagare in mezzo ai rifiuti tra lo sconcerto dei turisti e lo sguardo rinunciatario dei residenti. L’inflazione è a ruota libera, palpabile facendo un breve giro dei supermercati, al momento di passare davanti alle casse.
Avevamo 36 anni di meno quando l’aumento dei prezzi era all’8%, molti non c’erano nemmeno e non possono ricordarselo, gli altri fanno finta di non averne sentito parlare, dovrebbero consultare gli annali per rinfrescare la memoria, intanto non danno peso alla cosa.
L’afa africana non dà tregua, né induce a più miti consigli, siamo alle prese con il problema di graduare l’aria condizionata per avere un po’ di sollievo senza far soffrire pure la tasca, in autunno però saranno dolori seri, dovremo vedercela con ben altro, il ritorno del freddo. La riduzione del gas russo inciderà di più sulla borsa, avrà conseguenze meno tollerabili sull’economia – domestica e nazionale – dati i costi maggiori.
La recrudescenza del virus imporrebbe subito la quarta dose di vaccino, e molta prudenza. Distanze e mascherine ancora una volta, se non vogliamo ammalarci e rischiare la terapia intensiva e il peggioramento della situazione sanitaria. Ma dopo anni di sacrifici, non se ne ha gran voglia. Domina il desiderio di girare, la voglia di svagarsi.
La guerra in Ucraina è diventata una costante della cronaca, fa parte del quotidiano, è una sorta di abitudine confinata alle pagine interne dei giornali, sopraffatta dalle novità e dall’abitudine. Riemerge non per la recrudescenza degli episodi di violenza, con tutto il sangue che continua a scorrere, ma per brevi notizie o piccoli aggiornamenti, che, se non fosse oltraggioso, definiremmo di colore.
Il lungo elenco non è frutto della lente deformante di inguaribili pessimisti. I soliti scontenti a cui non va mai bene nulla. È il quadro delle emergenze attuali, che si sommano o alternano nella gravità, si intrecciano tra loro in modo strano. Sollevano problemi economici, sociali, militari. Suscitano preoccupazione e paura.
La tempistica dei provvedimenti necessari per tenere il passo del Piano nazionale di ripresa e resilienza è, ancor più, confinata nel limbo delle cose da fare, ma a tempo debito, senza affannarsi: nemmeno troppo importanti se non tolgono il sonno, lasciando spazio a facezie. Non parliamo della legge di bilancio in scadenza a fine d’anno, senza la quale l’esercizio economico statale sarebbe provvisorio.
In questo contesto, infuocato non solo per il caldo, il dibattito politico si è acceso ancora di più sull’onda del dinamismo grillino stile Giuseppe Conte, quasi un ossimoro. In fretta, alla faccia del rinnovamento della politica, sono riemersi concetti e schemi che sembravano tramontati, tanto erano obsoleti, perché fallimentari.
Ecco la “non sfiducia”, per segnare smarcamenti di posizione, azzardati nella sostanza e incoerenti, ma non importa quando manca il coraggio dei gesti; la “verifica”, per fare il punto delle situazioni traballanti. Infine il famigerato “rimpasto”, alla fine non sarà mica una questione di posti e basta? Le solite poltrone in più o meno, ora che Di Maio con la scissione se n’è portate via un gruppetto aprendo falle nella rappresentanza 5 Stelle? C’è la voglia di maggiore potere per darsi più lustro da contrabbandare come risultati dell’azione politica?
Le ipoteche estremiste, per quanto improbabili per natura (Conte nei panni di Di Battista con la pochette?), sono in sé irragionevoli. Come è possibile dissociarsi da provvedimenti, come il decreto “Aiuti”, che mira a ridurre le difficoltà economiche di individui ed imprese? Ci si interroga in proposito sul ritorno del populismo, l’idea irriducibile di semplificare ciò che è complesso, di procedere alla svelta in ciò che richiede fatica e tempo, e magari qualche compromesso, opportuno e giustificato. Lo abbiamo visto all’opera il populismo in salsa gialloverde, straordinaria combinazione grillina e leghista. Così confuso, velleitario, disordinato. Rimane tentazione irresistibile.
Ma in questa fase siamo oltre. Qui, la fuga in avanti dei 5 Stelle è un gesto di irresponsabilità di fronte alle emergenze del paese, evidentemente troppo imponenti. Meglio inseguire stramberie, scorciatoie, e guadagnare un pugno di voti, che salvi dall’irrilevanza se non dalla sparizione. Il destino del paese non ha importanza. Seguono quest’ottica le richieste di interventi economici e sociali, confezionati alla bisogna, che sarebbero da discutere se non fossero avulsi da un disegno, dunque strumentali e utilizzati in chiave ricattatoria.
La disperata peregrinazione grillina in cerca di ruoli e scopi sarebbe un caso disperato, se non riguardasse il partito che aveva ottenuto nel 2018 il maggior numero di voti, un tesoro malamente dilapidato in pochi anni. Ugualmente quel sussulto avrebbe esiti meno drammatici se non rischiasse di innestare reazioni a catena, da parte di altri – ad esempio la lega di Salvini– scalpitanti anch’essi di riprendere vecchie parole d’ordine. E allora prendiamocela pure con questi noiosi diritti civili come lo ius scholae, e non dimentichiamo le ondate migratorie, che non ci sono, ma potrebbero sempre esserci.
Quella che manca è una politica appena normale, che si occupi delle cose che ci sono e che angosciano la gente, che ricorra al buon senso e non insegua farfalle. Proprio la politica che si fa (si dovrebbe fare) nelle istituzioni, in parlamento, al governo. Soprattutto ciò che latita è la visione d’insieme, il progetto che parli al paese e sappia trasmettere la scintilla giusta. Invece siamo sempre all’insopportabile sentimento dell’effimero.
Servirebbe un’idea che proponga con fiducia la scommessa del cambiamento, nonostante le tante difficoltà, anzi proprio per esse. Perché è in certi istanti che serve maggiore convinzione nello stare insieme e si impone la necessità di un obiettivo comune. Si avverte la mancanza di un disegno e si paga il prezzo dell’astensione elettorale a livelli allarmanti, ma non ci si sforza di comprenderne le ragioni e di fare scelte giudiziose. Anzi ci si muove in senso contrario.
Anche i più assennati non riescono a farsene una ragione, e ad essere lucidi sulle proposte. S’illudono di controllare l’eccentricità che permea il panorama politico, riportandola a saggezza, come se fosse semplice smussare le anomalie. Perdono tempo prezioso, confidando nell’impossibile, nostalgici di intese incapaci di scaldare i cuori e attivare le coscienze.
Costoro, e tutti gli uomini di buona volontà, non osano investire su idee nuove, non pensano a costruire alternative al disordine che ci paralizza. Certo, per farlo, per iniziare un’altra partita, veramente decisiva, servirebbe recuperare la fiducia di poter rifondare il patto tra i cittadini e lo Stato.