Con la Corte Suprema degli Stati Uniti presumibilmente ad un passo dal delegittimare il diritto costituzionale all’aborto, è possibile che, a questo punto, non siano solo le forze progressiste ad avvertire un crescente senso di apprensione. È quasi certo, infatti, che molti esponenti del movimento conservatore americano e del Partito Repubblicano guardino con una certa preoccupazione alle prossime settimane, quando la decisione finale della corte dovrebbe essere ufficializzata.
Sembrerebbe una contraddizione ma, a dispetto del fatto che la destra fondamentalista evangelica tenti da tempo di abolire il diritto all’aborto, la prospettiva di una vittoria finale in questa decennale battaglia presenta anche dei rischi che la leadership repubblicana ha ben presenti. Come già messo in evidenza nel corso delle udienze preliminari dell’inverno scorso dal giudice Sonia Sotomayor, riaprire il discorso sulla costituzionalità del diritto all’aborto ha inflitto un grave colpo alla credibilità di una corte che già godeva di un bassissimo indice di gradimento tra l’opinione pubblica.
Così facendo, infatti, il drappello conservatore che costituisce l’attuale maggioranza ha scelto di ignorare un pilastro del diritto americano: il principio legale dello “stare decisis“, che stabilisce il primato dei precedenti giuridici (in questo caso Roe vs Wade e Planned Parenthood vs Casey) e che asserisce che, se una questione è già stata dibattuta dalla corte e legittimata da una sentenza, non può essere rimessa in discussione.
L’inesorabile declino della Corte Suprema statunitense è iniziato nel 2017, quando il Senato a guida repubblicana ha nominato Neil Gorsuch per rimpiazzare Antonin Scalia, negando all’allora presidente Barack Obama la prerogativa di nominare il suo candidato, Merrick Garland, alla fine della sua presidenza. Il pretesto con il quale il GOP non ha esitato a calpestare decenni di prassi consolidata, è stato quello dell’approssimarsi di un’elezione alla quale mancava ancora un anno. Una giustificazione di per sé risibile, e poi ipocritamente ignorata tre anni dopo con la nomina di Amy Coney Barrett ad elezioni già iniziate.
La bancarotta etica della Corte Suprema è apparsa di recente ancora più evidente con la scoperta del ruolo svolto da Virginia Thomas, moglie del giudice Clarence Thomas, nel fomentare l’insurrezione del 6 gennaio 2021, culminata con l’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori dell’ex presidente Trump.
Alla luce di questo, la “soffiata” anonima che ha rivelato le intenzioni della corte di eliminare il diritto costituzionale all’aborto è solo l’ultimo capitolo di una graduale perdita di legittimità da parte di un’istituzione che, tradizionalmente, ha sempre basato la sua autorevolezza nella percezione di un suo ruolo super partes.

Tornando all’aborto, nel breve termine, un potenziale pericolo per le fortune dei conservatori si riferisce al fatto che la decisione finale della Corte Suprema, attesa per le settimane a cavallo tra giugno e luglio 2022, arriverà nel bel mezzo della campagna elettorale per le elezioni di medio termine. Un’eventuale eliminazione del diritto all’interruzione della gravidanza potrebbe galvanizzare un’opinione pubblica che, secondo i sondaggi, resta decisamente favorevole all’aborto legale, e non solo negli Stati democratici.
In caso di revoca infatti, la decisione sulla legalità dell’aborto passerebbe ai singoli Stati, e quelli in cui gli effetti saranno avvertiti maggiormente dalla gente sono tutti politicamente controllati dai repubblicani. Questi ultimi, una volta liberatisi dalle costrizioni costituzionali federali, renderanno immediatamente illegale la procedura. La maggior parte di quelli a gestione democratica, al contrario, ha già leggi in grado di tutelare il diritto delle donne ad interrompere la gravidanza.
Ma il rischio principale di una revoca della costituzionalità della legge per il GOP è un altro. A parte quello di fornire sgravi fiscali ai ceti agiati del Paese, difatti, il Partito Repubblicano dell’era post-Trump sembra aver abbandonato ogni velleità amministrativa e governativa. Il suo scopo principale è semplicemente quello di salvaguardare le sue posizioni di potere con metodi che sconfinano sempre più nell’autoritarismo, come la soppressione dell’accesso alle urne e la continua istigazione di una conflittualità sociale che, non essendo allineata alle esigenze economiche della sua base elettorale, si basa quasi esclusivamente sulle cosiddette “questioni di valore“.
Ed è proprio su quest’ultimo punto che un’eventuale eliminazione del diritto all’aborto potrebbe risultare controproducente per un partito, come quello repubblicano, che mancando persino di una chiara e definita agenda politica basa il suo consenso elettorale unicamente sulla capacità di aizzare un gruppo sociale contro un altro su questioni come il diritto al porto d’armi, le controversie razziali dei programmi didattici e, appunto, il diritto all’aborto.
Una possibile risoluzione a loro favore di quest’ultima, annosa diatriba sulle interruzioni di gravidanza, estinguerebbe uno dei principali focolai di rancore che il partito continua cinicamente e artificialmente ad alimentare per tenere alto il livello di collera e di indignazione. Una collera che attiva e mobilita il suo elettorato. E che Donald Trump, come tutti i demagoghi, ha mostrato di saper manipolare alla perfezione.